Quale è la sua provenienza religiosa?
«Sono stato battezzato dalla mia famiglia e ho fatto la prima comunione. Fin da piccolo ho osservato un cattolicesimo famigliare: come si andava a scuola, si andava anche a messa. Con l’adolescenza, come tanti della mia generazione, ho completamente perso qualsiasi contatto con la Chiesa. Questo è durato per lungo tempo. In seguito, a poco a poco, la figura e l’azione di Giovanni Paolo II hanno cambiato l’immagine che mi ero fatto del cattolicesimo. Wojtyla rivestiva un ruolo politico internazionale di primo piano, ma al contempo con il suo messaggio di Cristo avanzava un atteggiamento critico con il mondo di allora. Questo è stato il primo shock: da giovane pensavo che il cristianesimo rappresentasse l’ideologia prestabilita, in seguito ho compreso che tale non era, bensì era un’esigenza di verità rispetto al mondo».
In quale momento è avvenuto il suo ritorno alla fede?
«Intorno all’anno 2000. Continuavo la mia vita di scrittore, mi occupavo dei miei figli e... non cercavo di convertirmi! Alcuni giornalisti amici mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su Giovanni Paolo II. Ho risposto: 'Ma non sono credente!'. E loro: 'Scrivi lo stesso!'. Inoltre, un altro momento mi ha quasi costretto a fare 'fare outing ': in occasione di un reportage in Terra Santa avevo un autista e un fotografo a mia disposizione. Appena partiti, mi hanno chiesto la mia appartenenza religiosa. Loro si sono presentati come un musulmano, l’altro ebreo, per quanto 'laicizzato'. Mi sono sorpreso nel dire: 'Sono cattolico!'. Non l’avevo mai affermato. Avevo sempre avuto un grande attaccamento al cattolicesimo 'culturale', all’importanza della Chiesa, all’arte cristiana. Anche da non credente ero convinto che senza il cristianesimo la letteratura europea semplicemente non esisterebbe. Ho sempre avuto attenzione al fatto che la Chiesa ci aiuta a essere società. In Francia, negli ultimi anni, si parla molto del 'legame sociale', dimensione a metà strada tra individualismo e comunitarismo. La Chiesa, facendoci andare a messa, chiedendoci di essere una comunità, convocandoci, ci lega molto gli uni agli altri: ho sempre considerato ciò una ricchezza. E mi sono reso conto che il messaggio di Giovanni Paolo II trasmetteva proprio questo legame, che alla nostra società manca così drammaticamente».
Può spiegare meglio questa centralità di Wojtyla nel suo ritornare cattolico?
«Paradossalmente le critiche continue dell’establishment culturale verso la Chiesa e il papa polacco mi hanno riavvicinato alla fede. Quando sentivo parlare di posizioni reazionarie nella Chiesa cercavo di capire meglio e in realtà trovavo che la posizione cattolica era un segno di contraddizione nella società. Per me tale critica ha costituito un segnale che mi ha segnato la via. E davvero, quando nel Duemila, mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Giovanni Paolo II, in quel frangente, dentro di me, è successo qualcosa al punto che ho ammesso: 'Sì, Cristo è risuscitato, le quattro versioni dei Vangeli sullo stesso fatto sono vere, perché non c’era altra ragione di scriverne così in maniera differenziata se non fosse che parlavano di un fatto vero'. Nessuna ipotesi della nostra fantasia poteva concepire una storia come la resurrezione».
È curioso che un pontefice considerato dai media un «conservatore» come Wojtyla abbia aiutato a riscoprire la fede un «progressista» come lei...
«La mia frequentazione di Giovanni Paolo II inizia da lontano: mi ricordo molto bene il giorno in cui venne eletto papa. Come tutti rimasi molto sorpreso che fosse stato scelto un cardinale dal mondo comunista. Poi ci fu lo strano episodio del tentativo di ucciderlo nell’attentato del 1981. Da lì mi sono interessato alla sua storia passata: ho scoperto un combattente, un uomo che, nato in Polonia, aveva lottato contro il nazismo come resistente, e si era opposto all’altro totalitarismo, il comunismo. Negli anni Ottanta ha avuto un ruolo fondamentale nella caduta dei regimi dell’Est. Wojtyla è stato una personalità estremamente imprevista e imprevedibile. Solitamente per me, come per tanti italiani, il papa era semplicemente un cardinale italiano che non usciva dal Vaticano. Ma Giovanni Paolo II ha sconvolto l’immagine statica del papato: ogni volta che si recava in posto faceva sorgere come dal niente migliaia di persone. Grazie alla sua personalità e testimonianza ho capito che il cristianesimo era una cosa vivente per milioni e milioni di persone, soprattutto per tanti poveri. Questa è stata per me una grande scoperta. Ad esempio, quando – lui, che veniva da un regime comunista – è andato nella Cuba di Fidel Castro e si è comportato come un padre con i propri figli: un fatto che mi colpì moltissimo. Anche la scelta di non rinunciare alla sua missione durante la malattia fu per me molto eloquente. Chiunque, anche se non credeva, doveva ammettere che Wojtyla era un uomo che viveva per Cristo ed era di Cristo».
Il suo approdo al cristianesimo non ha significato per lei una svolta conservatrice. Spesso il ritorno alla fede comporta il cambiamento di posizioni culturali in maniera tranchant.
«Sono cresciuto in un’epoca in cui il comunismo era ancora sinonimo di cambiamento. Ho avuto sempre simpatie comuniste. Poi ho assistito all’epoca in cui il comunismo nell’Europa dell’Est è pian piano andato svanendo. E questo fatto ha causato la disillusione generale di ogni speranza rivoluzionaria: il capitalismo liberale globale ha trionfato ovunque. Non esisteva scelta: il consumo e la produzione sono diventati il clou della vita di chiunque a qualunque latitudine. Anche nelle nostre democrazie i diritti umani soggiacciono a questa dinamica. In realtà si tratta anche in questo caso di un’ideologia illusoria: come sotto il comunismo, anche con il capitalismo globale il mondo resta violento, l’ineguaglianza tra gli uomini che possiedono e quelli che non hanno nulla rimane molto forte. Viviamo in società impregnate di violenza. Per questo mi pare oggi che in questo vuoto il messaggio di Cristo possa risuonare in maniera inedita. Già Giovanni Paolo II aveva messo in guardia, lui che il comunismo lo conosceva bene, dal fatto che il capitalismo liberale globale non fosse la risposta completa e definitiva ai bisogni dell’uomo. Ad esempio, la forte critica di Wojtyla alla mentalità che va per la maggiore in materia di questioni sessuali, rappresenta ai miei occhi una criticità contestataria che mi ha sempre affascinato».
La tradizione cristiana ha ancora qualcosa da dire all’Europa oppure la laicizzazione del Vecchio Continente significa necessariamente il ripudio del cristianesimo?
«Il cristianesimo è oggi quanto mai eloquente per un Occidente capitalista che sta vivendo all’insegna dell’unico desiderio di consumare beni, oggetti e persone. Viviamo in una società in cui gli antichi ideali di giustizia sono spariti. Invece il messaggio di Cristo è alternativo all’idea che possiamo diventare felici solo consumando beni e persone. Cristo ci insegna che esiste la speranza di qualcos’altro, che vi è un’altra promessa: quella della salvezza dell’anima. Noi siamo chiamati ad essere qualcosa di più di semplici macchine che consumano beni e persone. Se ci guardiamo intorno, dove troviamo una voce più forte nella presa di distanza dal mondo attuale, dalla mentalità corrente, dall’opinione dominante come la parola del cristianesimo? Dove troviamo un appello più radicale alla giustizia, al corretto uso dei beni terreni? Cristo continua ad interpellarci. Sono convinto che la testimonianza cristiana possa essere molto benefica per l’uomo e per l’intera società. Il cristianesimo ha molto da dire e da proporre oggi».