Tra le teche del Museo nazionale di Sarajevo, in questi giorni, capita di imbattersi in guide fuori dal comune: artisti e scrittori (tra gli altri si sono visti Zlatko Dizdarevic e il grande Abdulah Sidran), registi e volti noti dello spettacolo, accademici, attivisti, persino il cardinale Vinko Puljic e il reisu-l-ulemaHusein Kavazovic. La notizia eccezionale, tuttavia, è il fatto stesso che l’imponente ingresso della più importante istituzione espositiva bosniaca non sia più sbarrato, come era rimasto negli ultimi tre anni dopo 124 di gloriosa attività, ufficialmente per 'mancanza di fondi'.In realtà, nel Paese uscito vent’anni fa dalla guerra fratricida in cui si dissolse la ex Jugoslavia, anche la cultura è finita ostaggio delle perverse logiche nazionalistiche che - complice il surreale sistema statale creato dagli accordi di Dayton - di fatto paralizzano tutti gli aspetti della società.L’infinito contenzioso politico sulla definizione di un 'patrimonio nazionale condiviso' portò, nell’ottobre del 2012, alla soluzione più estrema: chiudere al pubblico lo Zemaljski Muzej, il cui elegante profilo neoclassico svetta su quella via Zmaja od Bosne tristemente nota al tempo dell’assedio come 'il viale dei cecchini'. Paradossalmente, pur ferito da centinaia di colpi di proiettile, allora il Museo aveva resistito. Negli ultimi tre anni, invece, né i turisti né i sarajevesi hanno potuto accedere alle splendide incisioni illiriche e ai magnifici mosaici romani, alla sezione etnografica e a quella naturalistica, alla collezione mineralogica e alla biblioteca da oltre mezzo milione di volumi. Soprattutto, off limits è rimasto il gioiello del Museo nazionale: l’Haggadah di Sarajevo, il manoscritto ebraico sefardita illustrato con miniature in rame e oro, realizzato a Barcellona intorno al 1350 e considerato uno dei più preziosi al mondo.«È proprio per rivendicare l’importanza di questo patrimonio, per farne conoscere alla gente il carattere multiculturale e richiamare la politica alle proprie responsabilità che abbiamo iniziato la nostra campagna di occupazione», spiega Ines Tanovic Sijercic, giovane portavoce dell’associazione culturale Akcjia Sarajevo. Ines è tra le principali animatrici di 'Io sono il Museo', una massiccia mobilitazione civica che ha visto in queste settimane attivisti, intellettuali e tanti privati cittadini riappropriarsi degli spazi espositivi e aprirli al pubblico. Una prima volta per la martoriata nazione bosniaco erzegovese, non solo perché l’azione è trasversale alle diverse comunità etnico-religiose, ma anche perché è incentrata sulla difesa della cultura come fulcro di un’identità nazionale debole, messa a dura prova dagli opposti particolarismi.Nelle sale si organizzano eventi - mostre, concerti, performances -, dibattiti pubblici, raccolte fondi. Tra le prime iniziative l’esposizione fotografica dell’artista Ziyah Gafic 'Guardiani del Museo', dedicata ai quarantacinque dipendenti dello Zemaljski Muzej che in questi anni hanno custodito le collezioni pur senza stipendio. Proprio in solidarietà con questi eroi quotidiani è nata l’idea del 'Turno al Museo', a cui hanno aderito moltissime personalità di spicco: dal filosofo Esad Bajtal alla regista Selma Spahic, oltre ad attivisti come Jovan Divjak, Jacob Finci, Svetlana Broz... Tutti trasformati in custodi per un giorno, per sollecitare una risposta politica urgente. Tra chi ha già svolto il suo 'turno' c’è anche il cardinale Puljic: «Un uomo che non conosce la sua storia non ha un futuro», ha dichiarato, sottolineando la pluralità etnica e religiosa che caratterizza le collezioni. «Il Museo è la nostra carta d’identità, quella di tutte le nazionalità che hanno vissuto e continuano a vivere in questo Paese e nella regione», conferma Tanovic Sijercic. «Non è bosgnacco, croato o serbo: non racconta una storia di divisione bensì di convivenza secolare. È l’ultimo territorio libero di questo Stato». E i bosniaci hanno dimostrato di volerlo difendere: da tutto il Paese, ogni giorno, arrivano delegazioni aziendali, sindacali, sportive, spesso fornite di materiale omaggio per un’istituzione a cui oggi serve tutto, dai telefoni alle fotocopiatrici. «L’esperienza più bella, tuttavia, è stata vedere tanti bambini mettere piede qui dentro per la prima volta nella loro vita».La battaglia dei sarajevesi per rivendicare la centralità della cultura nella rinascita del Paese ha anche dei risvolti molto concreti, se si pensa che proprio il patrimonio storico-culturale è il fattore chiave del vero boom turistico in corso in Bosnia: solo quest’anno oltre un milione di visitatori, a Sarajevo il quadruplo rispetto all’anno delle olimpiadi invernali, il 1984…Soltanto i governanti, a livello centrale e federale, sembrano non avere colto questa potenzialità. Fino ad ora. Perché la mobilitazione in corso ha finalmente smosso le acque: «Nei prossimi giorni dovrebbe essere firmato un primo accordo per sbloccare i finanziamenti ai vari livelli amministrativi», conferma Ines. «La soluzione definitiva potrà arrivare solo con la definizione di uno status legale chiaro per il Museo, ma siamo fiduciosi che questo sia il primo passo verso la svolta». Nonostante tutto, nella Gerusalemme d’Europa la speranza non è morta.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: