Nelle pagine di un romanzo, scrisse Stendhal, «la politica può fare l’effetto di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto ». In realtà la letteratura popolare dell’Ottocento non esitò ad ambientare le proprie storie nelle stanze del potere, e grandi romanzieri come Balzac, Hugo, Dostoevskij e Zola non mancarono di mettere in scena intrighi politici più o meno verosimili. Il mondo di
House of Cards – la serie televisiva di Netflix, giunta quest’anno alla sua quarta stagione – ha dunque profonde radici, che non risalgono peraltro solo alla vecchia tradizione del romanzo ottocentesco, ma anche più indietro, al teatro di Marlowe e di Shakespeare. E nella sinistra sagoma di Frank Underwood si possono così agevolmente riconoscere i tratti dello shakespeariano Riccardo III, o di uno dei tanti machiavellici arrampicatori sociali della “Commedia Umana”, o persino di un discendente di Eugène Rougon, ministro del Secondo Impero. Al di là del suo valore artistico e delle sue ascendenze letterarie, il successo ottenuto in questi anni da
House of Cards non poteva non alimentare molte discussioni. Discussioni che si sono innanzitutto concentrate sul significato di una serie che non esita a rappresentare il volto peggiore della politica. E che anzi indulge nell’esibire l’insaziabile sete di potere che muove i protagonisti. È quasi scontato che nelle vicende e nei personaggi che percorrono i mille corridoi di Washington D.C. si possa scovare più di qualche allusione alla realtà della politica americana, e persino a qualcuno dei protagonisti della lunga corsa elettorale che, nel prossimo novembre, sancirà il nome del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Ma sarebbe probabilmente semplicistico ridurre l’intera operazione di
House of Cards solo a questa dimensione. Certo si può considerare la serie – come faceva Foscolo per il
Principe di Machiavelli – come un’opera che, rappresentando l’efferatezza di Underwood, mostra agli occhi del pubblico «di che lagrime grondi, e di che sangue» lo scettro del potere. Anche in questo caso si tratterebbe però di una lettura riduttiva. E soprattutto di una lettura fin troppo confortante, che finirebbe col trascurare il fascino che un personaggio spregevole come Underwood comunque esercita sugli spettatori. Forse
House of Cards è infatti uno “specchio” della politica di oggi non tanto per la verosimiglianza degli intrighi e dei personaggi, quanto perché registra fedelmente la sfiducia pressoché totale nei confronti della classe politica che caratterizza ogni democrazia avanzata. In altri termini, mentre mette in scena una politica in cui regnano incontrastati la menzogna, l’inganno e l’adulazione,
House of Cards non fa altro che dar forma plastica a ciò che – a torto o a ragione – è la percezione diffusa nella «società della sfiducia ». Al tempo stesso, però, quella rappresentazione non va più ad alimentare una denuncia, come avveniva invece nel cinema civile americano, o per esempio in un vecchio film come
Mr. Smith va a Washington. Ma si traduce piuttosto in un irrimediabile disincanto, nell’idea che la politica non possa essere altro che una politica senza valori, alimentata solo da una inestinguibile sete di potere. O, addirittura, si risolve in un cinismo compiaciuto. Col risultato che, nell’immaginario del pubblico, le vicende di Frank e Claire Underwood finiscono col diventare davvero una sorta di Principe del XXI secolo, e cioè il manuale di un “machiavellismo prêt-à-porter”, cui ciascuno di noi è chiamato ad attingere per orientarsi nelle relazioni quotidiane. Ma quella che
House of Cards mette in scena è anche la politica della “democrazia immediata” e dello storytelling. Una politica in cui le grandi strutture di mediazione sono sempre più evanescenti, e in cui i media rappresentano l’unico canale che mette in connessione i governanti e l’immensa platea del “pubblico”. E ovviamente una politica “personalizzata”, i cui protagonisti non sono partiti, classi o ideologie, ma solo i leader, armati esclusivamente della loro fisicità, della loro più o meno efficace retorica, della loro capacità di “raccontare storie”. Lo sguardo ambiguo con cui il pubblico segue le trame di Fu ha per questo molto a che vedere con l’entusiasmo con cui l’opinione pubblica segue – anche solo per un attimo fugace – le avventure dei leader politici postmoderni e le loro “narrazioni”. E proprio per questo – pur con tutte le sue deformazioni –
House of Cards ci torna a dire che il potere, per sedurre, ha bisogno di storie, di miti, di narrazioni e persino di “eroi”, perché la legittimazione non può scaturire solo da regole e procedure. Ma naturalmente non dobbiamo mai dimenticare che gli eroi politici di cui celebra l’epopea lo storytelling contemporaneo non sono affatto eterni come gli eroi di Omero, ma sono anzi le creature effimere di cui si alimenta lo spettacolo della politica. Leader carismatici, capaci di accendere entusiasmi, di evocare sogni e speranze, eppure sempre più deboli, sempre più privi di sostanziale potere, sempre più soverchiati dalla “gabbia d’acciaio” dei vincoli tecnici ed economici. Ed è forse anche per questo che
House of Cards – benché esibisca lo spettacolo di un potere cinico, e nonostante sembri celebrarne l’assenza di limiti (non solo morali) – in realtà finisce col suonare come una sorta di epitaffio non solo per la politica, ma anche per il potere di leader sempre meno capaci di mantenere le promesse e di soddisfare le attese che alimentano. Perché – anche se Frank Underwood definisce qualche volta il potere «duro come la pietra» - il potere della politica è destinato a rivelarsi sempre più fragile. Anzi fragilissimo. Proprio come un castello di carte.