Chi lo ha conosciuto sa che a influenzare la sua ansia di proteggere e preservare i siti archeologici per le future generazioni è stata una citazione di Cicerone: «Ignorare il passato significa rimanere bambini». Per Khaled al-Asaad, il custode di Palmira, le testimonianze di chi ci ha preceduto sono tesori inestimabili da tutelare e diffondere, perché nessuna comunità può davvero sperare di costruire un futuro senza conoscere la propria storia. L’archeologo è stato decapitato il 18 agosto dai miliziani dell’Is, dopo aver dedicato tutta la vita all’antica e fiorente città romana della Siria, riconosciuta nel 1980 «Patrimonio dell’Umanità» dall’Unesco. Il custode di Palmira è il martire di Palmira. Vittima di un terrorismo culturale con cui l’Is mira a distruggere la memoria. E quindi il futuro dei bambini della Siria e del Mediterraneo.A loro, domenica è dedicata una giornata a Roma, intitolata proprio «I sogni dei bambini di Siria», promossa dalla sezione italiana di
Religions for Peace, dall’Associazione giovanile musicale in collaborazione con l’associazione «Altre vie» (Aula magna della Facoltà valdese di teologia, via Pietro Cossa 40, ore 17). Musiche e parole di pace dal Mediterraneo per ricordare Khaled al-Asaad, liberare un pensiero di fratellanza e di dialogo (in
sabir, l’antica lingua del mare) e provare a ripartire, nonostante la barbara uccisione di al-Asaad, la distruzione a Palmira del tempio di Bel e del santuario di Baalshamin, l’abbattimento dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan, di Nimrud in Iraq, l’attentato al Museo del Bardo di Tunisi.«Guardare queste immagini è un grande dolore e oggettivamente un raccapriccio. Soprattutto perché la Repubblica araba siriana, nei cinquant’anni che l’ho frequentata, era un Paese estremamente aperto a livello culturale. Nel 1963-64, quando ho cominciato la missione a Ebla, c’erano otto campi stranieri: nel 2010 erano ottanta, e se consideriamo le missioni congiunte 120. C’era una convivenza tranquilla, sia dei diversi gruppi islamici sia delle fedi diverse dall’islam. Non c’era differenza fra un alawita, uno sciita, un sunnita, un cristiano e un curdo. Non mancavano le difficoltà a livello politico per i privilegi degli alawiti e di non pochi sunniti che collaboravano con loro, ma le minoranze erano perfettamente integrate, a cominciare dai cristiani », dice Paolo Matthiae, archeologo dell’Università de «La Sapienza» ripercorrendo i suoi lunghi anni in Siria. Domenica dialogherà con Maria Teresa Grassi, dell’università di Milano, che dal 2007 al 2010 ha guidato la missione italo-siriana a Palmira. «Quando si perde una persona cara, ci sono momenti in cui non ci si rende conto che non c’è più. Così certe volte ho l’impressione che non sia vero tutto quello che è successo – evidenzia la professoressa Grassi –. È il rischio che si corre vedendo le immagini filtrate dai media o le scene di film che ci assuefanno alla violenza. Può sembrare una
fiction, invece è drammaticamente vero. Il pensiero va oltre al sito archeologico. Va a Khaled che ha speso tutta la sua vita per Palmira e alle tante persone che hanno lavorato, ai responsabili del museo, ai funzionari di Damasco, agli operai di cui non abbiamo più notizie. Riusciamo a fatica ad avere qualche contatto via WhatsApp con alcuni di loro. Dalla zona sono scappati tutti. Lì non ci sono le condizioni per restare». E pensare che Palmira incarnava il senso del dialogo, l’incontro fra diverse culture. «Città carovaniera a metà strada tra il Mediterraneo e l’Eufrate – precisa Grassi – , è un patrimonio comune per le popolazioni orientali e occidentali: dai romani, agli arabi. Una zona di passaggio che rappresenta una testimonianza artistica eccezionale di questo incontro tra culture. Non certo senza contrasti e scontri, come ci racconta la storia. Ma il tempio di Bel per i palmireni era 'la casa dei loro dei', tutti. È stato una chiesa cristiana e poi, quando il villaggio arabo è cresciuto intorno al tempio, è diventato una moschea. Questo ci aiuta a sottolineare un aspetto che i media spesso non trasmettono chiaramente: i miliziani dell’Is non si accaniscono solo contro l’antichità; sotto attacco è tutto ciò che non è in linea con le loro idee e con il loro modo di interpretare l’islam. Non dimentichiamo che le prime distruzioni a Palmira interessarono proprio una tomba islamica». Attacchi che rappresentano la negazione della cultura di un popolo. «Siamo davanti a una follia estremistica e totalitaria – riprende Matthiae – che mira a tagliare sia la memoria sia l’identità, fondata sul dialogo e la tolleranza. Come singoli e come comunità. Ricordo qualche occasione in cui a Ebla venivano in visita l’ambasciatore della Santa Sede o prelati: i miei guardiani, gli operai del villaggio, tutti sunniti, erano persino reverenti e si rivolgevano loro con l’espressione araba
abuna, 'il nostro padre', perché li riconoscevano spiritualmente importanti. Quando arrivavano i padri francescani dei tanti conventi disseminati nella zona erano veramente rispettosi». «Dirò di più: la Repubblica araba siriana era anche uno dei Paesi a governo laico in cui le fedi non facevano discriminazione. Quando fu creata la costituzione, per dare l’idea dello spirito con cui nasceva, nella prima stesura non c’era scritto che il presidente dovesse essere di fede islamica. Si aggiunse dopo e in maniera generale. Adesso la situazione si è esacerbata. Il contrasto è diventato religioso. I cristiani costretti alla fuga…».Sembra un punto di non ritorno. «La situazione è obiettivamente molto complessa per l’Iraq e la Siria – ammette l’archeologo –. È evidente che di fronte al livello di brutalità raggiunta, può esserci ormai solo una soluzione politica guidata dalle potenze mondiali, Usa e Russia innanzitutto, e da quelle regionali, Arabia Saudita e alcuni Emirati del Golfo, oltre a Turchia e Iran. Se può esserci una speranza di avviamento di una forma rinnovata di governo penso possa arrivare dal recente accordo fra Washington e Teheran: l’aver inserito l’Iran nella responsabilità complessiva del Vicino Oriente è l’unica mossa che può non lasciare campo libero alle intolleranze». La domanda a questo punto è: quali saranno «i sogni dei bambini della Siria»? «Immagino sia difficile vivere i primi anni della propria vita e della propria formazione in una situazione di terrore – sottolinea Grassi – . Ma voglio credere che sia possibile pensare al futuro. In quei rari contatti che abbiamo con i nostri collaboratori, ho saputo che due dei miei allievi hanno avuto il coraggio di mettere al mondo dei bimbi. Persone che sono in guerra e vivono una situazione di terrore quotidiano, scommettono nella speranza. È una testimonianza bellissima. Noi che viviamo negli agi e parliamo di crisi, facciamo fatica ad avere fiducia; invece loro credono nel futuro. È una luce di speranza per gli adulti, per i loro figli. E per tutto il Mediterraneo ».