Il titolo del suo ultimo saggio, Perché il Sud è rimasto indietro, edito dal Mulino (pagine 260, euro 16,00) inizialmente doveva contenere anche la frase: «I conti con noi stessi», perché – questa è la tesi di Emanuele Felice – se il Mezzogiorno è rimasto per alcuni versi al palo, la colpa è della classe dirigente/ dominante che si è succeduta nel Meridione. Il giovane studioso, storico dell’economia, da Vasto, città natale, è emigrato (lo ammette senza remore) in Spagna e insegna all’Università Autonoma di Barcellona. Il suo è un saggio denso che scarta spiegazioni storiche (i colonizzatori piemontesi, per intenderci) e anche ragioni geografiche, biologiche o culturali. La differenza tra Nord e Sud è dovuto principalmente al Sud. Tale asserzione non va presa male sotto Roma. La spiegazione, in realtà, mette sul banco dei responsabili una classe dirigente che è stata al gioco per suo interesse. Professor Felice, a cosa dunque è dovuta questa differenza tra le due Italie? «Certamente a qualcosa che è accaduto dentro il Mezzogiorno. Ripropongo le tesi di Croce e di Salvemini, questo filone del meridionalismo classico che accusa la borghesia meridionale di non aver svolto il suo ruolo, anche perché debole, e contesta ai baroni del Sud di essersi alleati con gli industriali del Nord. Riprendo e attualizzo queste tesi fino ai nostri giorni in base a un quadro statistico dall’Unità ad oggi che ho contribuito a realizzare. Questi dati sulle differenza del pil e di altri indicatori sono collegati alla letteratura internazionale sulle classi dirigenti estrattive e inclusive. Le prime sfruttano ricchezza e non ne generano altra». Si riferisce a Daron Agemoglu e a James Robisons. Quali sono, dunque, le istituzioni estrattive al Sud che hanno determinato queste distanze? «Le politiche di tipo estrattivo non puntano a creare ricchezza nuova, come invece certi meccanismi inclusivi, che sono creatori di ricchezza. Ad esempio la rivoluzione industriale che ha favorito l’emergere di ceti nuovi e la creazione di imprese. Que- ste ultime necessitano di un’impostazione istituzionale che premi il merito e l’intraprendenza. Al Sud questo non è avvenuto. Nell’Ottocento le istituzioni nel Meridione hanno puntato a mantenere la rendita agraria della terra, nel Novecento a distribuire la ricchezza che veniva dallo Stato, a spartirsi cariche pubbliche e a offrire posti in cambio di consenso elettorale». Al Nord, invece? «Se pensiamo ai distretti industriali del Nord-Est o alle grandi imprese del Nord-Ovest, abbiamo avuto qui istituzioni molto inclusive. Dura l’illusione unitaria che fa credere che le istituzioni siano uguali al Nord e al Sud. In realtà sono diverse nel funzionamento fin dall’età liberale». Lei scrive che la strategia è quella di riconvertire queste istituzioni da estrattive in inclusive. Ma chi può farlo?«Dovrebbero farlo i cittadini. Ma non ne vedo le condizioni perché è più facile emigrare. L’idea della fuga è praticata fin dalla fine dell’Ottocento. Se chi è andato via fosse rimasto al Sud forse avremmo oggi un contesto diverso. I cittadini potrebbero farlo se ci fosse un elemento di rottura che venisse dall’esterno. In passato ci sono stati di tali fattori, ma sono andati perduti».Ma l’Unità non fu in questo senso un elemento di rottura? «Certo, poteva cambiare la situazione, ma fu fatta con l’alleanza delle classi dirigenti del Sud e anche con la mafia e la camorra. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno durante il miracolo economico pure poteva essere un elemento di rottura però anche quello è finito male, anche per sfortuna. Se fosse solo durato di più e non fosse arrivata la crisi del 1973 con il petrolio che aumentò! Oggi non vedo in prospettiva altri fatti capaci di determinare una sterzata». Neppure la Ue? «In teoria sì. Ma l’Europa ha problemi suoi seri e a livello strategico è più interessata all’Est che non al Sud Italia. Potrebbe essere un fattore di modernizzazione ma, proiettata in un quadro europeo, mi pare che tutta l’Italia e non soltanto il Sud, abbia bisogno dell’azione di modernizzazione dell’Europa. Mi riferisco a tutto il sistema giudiziario o dell’amministrazione, ad esempio». Al Sud c’è stata quella che definisce modernizzazione passiva, vale a dire senza cambiamento sociale... «Esatto: una modernizzazione passiva alla quale le classi dirigenti si adattano. La modernizzazione dall’Ottocento è stata una forza inevitabile con cui tutte le società arretrate hanno fatto i conti. Lo hanno fatto però in modo diverso, a secondo dei contesti istituzionale. Le istituzioni inclusive, appunto, hanno promosso una modernizzazione attiva che si è avuto a Nord con la Fiat, per fare un solo esempio. Quella passiva fa dire alle classi dirigenti: stavamo bene come stavamo. Ora arriva questa modernizzazione. Ci confrontiamo con essa, ma l’accettiamo nel misura in cui ne ricaviamo benefici, limitando i cambiamenti sociali più dirompenti che essa comporta... ». Insomma, il gattopardismo. «Esattamente: lo stesso fenomeno spiegato non in termini letterari, ma con strumenti storico-economici».
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