(La Grande Moschea del sultano Qabus)Fautore e protagonista assoluto di questo ribaltamento sua maestà Qabus bin Said, il sultano asceso al potere nel 1970 con un leggendario e incruento colpo di Stato. Tornato dopo aver studiato in Inghilterra, diventato fan dei Beatles (al ritorno in patria aveva nascosto nel baule un vinile dei Fab Four all’epoca al bando nel suo Paese come la tv, la radio e gli occhiali da sole che «annebbiavano l’anima»), il giovane Qabus entrò subito in contrasto col vecchio padre oscurantista Said bin Taymur. Con una fulminea sommossa mandò in esilio l’anziano genitore e diede avvio a una repentina rivoluzione economica, sociale e culturale: due erano le scuole, due anche gli ospedali e strade asfaltate per appena una decina di chilometri in un territorio grande come l’Italia; ora il grado di alfabetizzazione è del 97,6%, 25mila chilometri le strade asfaltate e ovunque nel Paese infrastrutture all’avanguardia. Dappertutto anche i suoi ritratti, la sua foto viene appesa agli specchietti retrovisori dei fuoristrada o ricopre un’intera facciata dei palazzi. Una sovraesposizione fotografica che però è anche un riflesso dell’affetto e della stima che il popolo omanita nutre nei confronti di una figura carismatica. Comunque un leader illuminato, da sempre sensibile ai bisogni della sua gente, il sultano Qabus, che una volta l’anno incontra gli anziani e i capofamiglia e, guardandoli negli occhi per carpire la verità, ascolta ed esaudisce le loro richieste. Colloqui intimi e privati sintomatici di una costante apertura al dialogo che avviene su larga scala. L’Oman, infatti, si è accreditato come il Paese che opta per il confronto e la sobrietà dei costumi e prende le distanze da integralismi, bulimie e ostentazioni del lusso. Evidente anche la lungimiranza politica di questo Paese islamico che, pur possedendo riserve di petrolio pari a 5,5 miliardi di barili, pensa ad alternative economiche orientando gli investimenti nei settori della cultura e del turismo. Previdente dunque l’Oman e consapevole che la convivenza pacifica è un altro dei cardini dello sviluppo. Consapevolezza che affonda nella dottrina ibadita, la religione dominante (73,6%), una sorta di terza via musulmana fra il credo sunnita, da cui ha origine, e quello sciita. L’ibadismo esclude ogni forma di vendetta e predica tolleranza e coesistenza con le altre religioni.
(La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Mascate)
Un principio che vive in prima persona quotidianamente Naima Ali Yusuf, volontaria e guida della Grande Moschea. Alla domanda «che cosa direbbe una religiosa ibadita ai fanatici che strumentalizzano il nome di Dio?», Naima risponde così: «Separare l’amore di Dio dall’amore per i fratelli significa tradire profondamente il Corano». E poi, rivolgendosi direttamente ai terroristi del Daesh, aggiunge: «Svegliatevi! L’inferno esiste!». Parole pesanti ma pronunciate senza durezza e con dolcezza come quelle che ci regala il filippino padre Raul Ramos, cappuccino di 62 anni e dal 2007 parroco della Chiesa di San Pietro e Paolo, testimonianza solida e concreta della convivenza religiosa, che sorge nel quartiere Ruwi di Mascate e i cui terreni sono stati donati dal generoso Qabus. Una parrocchia che richiama 25mila fedeli di diverse nazionalità, in prevalenza indiani, filippini, pachistani, nepalesi, ma anche libanesi ed europei. «Lavoro e chiesa – ci svela non senza commozione padre Ramos – non hanno altro. Ho visto molti di loro giungere qui disperati e scoprire un’intimità con Dio inimmaginabile; alcuni percorrono centinaia di chilometri per venire a messa». Questa la gioia maggiore del parroco filippino. Il dolore più grande? «La lontananza dei fedeli che si trovano nelle parti più interne della regione, non poter celebrare messa con loro perché non ci è permesso al di fuori dei luoghi autorizzati. Ma confido nella generosità del sultano che magari conceda altri terreni per edificare altre chiese».
(Il sobborgo di Matrah) Si spera quindi in un futuro ancora più aperto come quello che sta costruendo Umberto Fanni per una Royal Opera House che ambisce a coinvolgere per la prossima stagione cinque continenti, Usa, Europa, Medioriente, Russia e Asia, e otto teatri d’opera per una coproduzione di respiro internazionale. L’Oman, dunque, vuole fugare l’incubo di un islam retrivo e reazionario per scommettere su un sogno fatto di armoniche aperture, proprio come insegna un famoso proverbio arabo: «Se stringi nel pugno la sabbia del deserto non riuscirai a trattenerla. Se lasci aperta la tua mano, si riempirà di sabbia».