In Irlanda si accende il dibattito storiografico in vista dell’attesissimo “anno del centenario”, quando tutto il paese celebrerà i cento anni della rivolta di Pasqua del 1916, l’atto di nascita della Repubblica e il momento più alto della resistenza contro il potere coloniale inglese in epoca moderna. Un anniversario che stavolta – contrariamente a quanto accadde nel 1966 per il cinquantesimo – non dovrà più fare i conti con la guerra in Irlanda del Nord e potrà quindi onorare gli eroi della
Easter rising senza rischiare di giustificare al contempo le azioni dell’Ira. Per molti studiosi il 2016 rappresenta già un terreno di scontro intellettuale dove non mancano prese di posizione provocatorie. Lo dimostra il tempismo dell’uscita dell’ultimo libro di Roy Foster, il prestigioso storico dell’Hertford College di Oxford, che ha battuto tutti sul tempo dando alle stampe il suo controverso
Vivid Faces: the Revolutionary Generation in Ireland 1890-1923. Capofila della corrente degli storici revisionisti, biografo ufficiale di William Butler Yeats e già autore di un monumentale saggio sugli ultimi quattro secoli di storia irlandese, Foster riprende la tesi dell’esistenza di una “generazione” di rivoluzionari, già lanciata alcuni decenni fa da un altro studioso irlandese assai discusso, Conor Cruise O’Brien. Lo fa attingendo a una gigantesca mole di materiale privato e a documenti d’archivio in parte inediti, cercando di evidenziare più il lato umano che quello politico dei protagonisti di quella stagione, per mettere in risalto le loro debolezze con un chiaro intento iconoclasta. «Ho voluto cercare di restituire loro un’immagine di giovani laici e moderni – ci ha spiegato – che avevano le loro vite sentimentali e iniziavano a mettere in discussione i tradizionali ruoli di genere, oltre al puritanesimo nella sfera sessuale, come emerge chiaramente dai loro diari e dalle loro lettere. In seguito sono stati invece ricordati in modo agiografico, come stinchi di santo, ma sono stati invece figure assai più interessanti». Quei rivoluzionari – sostiene Foster – erano un gruppo di giovani radicali, insegnanti, artisti, poeti, femministe e socialisti che appartenevano a una generazione desiderosa di esplorare forme di liberazione che andavano oltre la sfera politica in un mondo che stava cambiando. «La rivoluzione scoppiò nelle loro menti e nei loro cuori, portandoli a ribellarsi non tanto contro il governo britannico, come affermano da sempre gli storici nazionalisti, ma piuttosto contro le generazioni che li avevano preceduti, cioè contro le aspirazioni, i valori e gli stili di vita dei loro genitori». A sostegno di una tesi a dir poco singolare, che descrive una sorta di ’68
ante litteram con epicentro a Dublino, lo storico analizza nel dettaglio le vite di alcuni dei principali protagonisti, soffermandosi sulle presunte relazioni proibite della contessa Constance Markievicz, sulle (note) avventure extraconiugali di Maud Gonne, la
pasionaria musa di Yeats e sulla gravidanza segreta di una Grace Gifford non ancora sposata. Arrivando infine, basandosi solo sull’interpretazione del verso di una sua poesia, a insinuare l’omosessualità di uno dei simboli di quella rivolta, Patrick Pearse, il rivoluzionario-poeta teorico di un nazionalismo mistico intriso di elementi romantici. Gli obiettivi dell’autore sono chiariti nell’ultimo capitolo del libro, che descrive la tragica eredità di quella rivolta, e cioè la “disillusione” dei rivoltosi nei confronti del futuro, dovuta in gran parte al trauma della Guerra civile che lacerò il Paese tra il 1922 e il 1923, ma anche alla soppressione degli ideali laici, del libero pensiero, del femminismo e del socialismo progressista che la “generazione rivoluzionaria” auspicava di far prevalere spezzando il legame con l’Impero britannico. «Certamente – conclude Foster – l’Irlanda odierna, come abbiamo potuto vedere con il recente referendum sui matrimoni senza distinzione di sesso, si è liberata dal potere politico e sociale della Chiesa cattolica, che ha dominato a lungo il paese dopo l’indipendenza. E ciò mi sembra sia in piena sintonia con gli ideali dei principali esponenti di quella generazione rivoluzionaria». Ma il curriculum accademico e le grandi doti di narratore dello storico di Oxford non devono trarre in inganno: questo libro cerca in modo assai velleitario di relativizzare l’esperienza del 1916 e di decostruire una volta per tutte l’epos della “Rivolta di Pasqua”, sminuendo il momento culminante della lotta per la libertà dell’Irlanda proprio in occasione del suo centenario. Foster ci aveva già provato nel suo monumentale
Modern Ireland 1600-1972, affermando che il 1916 era stato un atto irrazionale, che aveva gettato le basi della violenza che mezzo secolo più tardi sarebbe scoppiata in Irlanda del Nord. Una tesi che aveva scatenato un acceso dibattito e diviso a lungo sia il mondo accademico che l’opinione pubblica irlandese. Vivid faces appare un tentativo ancora più goffo di riscrivere la storia irlandese. Innanzitutto perché non racconta la “generazione rivoluzionaria” nella sua interezza, ma si limita alla sua élite, a quella parte cioè che proveniva dalla media borghesia anglo-irlandese, istruita e abituata a scrivere lettere, memorie, diari e poesie. Al dramma di quegli anni Foster non fa partecipare le masse popolari, i tanti protagonisti anonimi di una storia che senza il loro fondamentale contributo avrebbe avuto un esito assai diverso. Inoltre, ben più di una singola generazione prese parte a quella storica rivolta e rivoluzionari come Pearse – come testimoniano le parole della dichiarazione d’indipendenza letta nei giorni della rivolta – erano in realtà ossessionati dal desiderio non di emanciparsi dalle generazioni precedenti, bensì di ristabilire una continuità con i martiri del passato, a cominciare dai padri del repubblicanesimo, Theobald Wolfe Tone e Robert Emmet. Più anime confluirono in quegli anni all’interno della galassia separatista irlandese: quella cattolica, rurale e conservatrice, il nazionalismo culturale che era espressione del
Gaelic revival e infine la tradizione socialista. Tutte furono unite però dal desiderio di rompere per sempre il giogo coloniale inglese. È difficile che questo libro, nonostante il prestigio dell’autore, riesca a sminuire il potere dei simboli creati nel 1916, che costituiscono le fondamenta dell’identità repubblicana dell’Irlanda moderna. Ancora oggi, un secolo dopo, risuonano forti le grida di Patrick Boyle, un giovane volontario impegnato nei combattimenti nel cuore di Dublino: «non è questo un grande giorno per l’Irlanda? Non dovremmo essere tutti grati a Dio che ci ha permesso di prendere parte ad una battaglia come questa?».