Walter Benjamin ne avrebbe di che aggiornare
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Software, scanner, stampanti: le tecnologie digitali a tre dimensioni sono ormai una realtà consolidata. E stanno conquistando il mondo dei beni culturali. Riproduzioni di opere d’arte se ne sono sempre fatte. Già pochi anni dopo la sua conclusione, l’
Ultima cena di Leonardo, giudicata irrimediabilmente compromessa, fu oggetto di copie per preservarne la memoria. Dal 1910 in piazza della Signoria a Firenze non c’è il
David di Michelangelo ma una sua copia. Così come gli originali di sculture ed elementi architettonici di chiese e palazzi sono conservati in musei mentre copie prendono pioggia e smog al posto loro. Per prima la fotografia ha separato la riproduzione dal filtro della manualità, ma non ha mai potuto raggiungere l’oggettività assoluta. Quel limite è stato superato. Con una tecnologia che si fa ogni giorno più economica. Fino a pochi anni fa gli esempi erano sporadici e si trattava soprattutto di scansioni destinate alla costruzione di modelli virtuali in 3D. Il caso «storico» è il
Michelangelo Project, condotto sul campo dalla Stanford University tra 1998 e 1999 ed elaborato negli anni successivi. Il modello a piena risoluzione del
David è arrivato però solo nel 2009. Il rilievo in 3D oggi è sempre più diffuso. Offre precisione assoluta anche in condizioni di ripresa problematiche ed è utilizzato tanto per lo studio – e oggi la Rete consente di diffondere i dati a ricercatori in tutto il mondo – quanto per la divulgazione. Il Progetto Grande Guglia, condotto dal 3D Survey Group del Politecnico di Milano, sta seguendo in tempo reale i restauri del Duomo milanese acquisendo dati e immagini per supportare il lavoro degli operatori. Il tutto in ambiente virtuale 3D. All’estero il progetto CyArk ha programmato la «conservazione digitale» di 500 siti in tutto il mondo. «Siamo in missione per salvare digitalmente il patrimonio culturale – ha detto il fondatore dell’organizzazione Ben Kacyra – prima che siano devastati da guerra, espansione urbana, cambiamenti climatici, disastri naturali. Non ci sono abbastanza soldi o tempo per salvare fisicamente ogni sito, ma noi abbiamo la tecnologia 3D per renderli disponibili alle generazioni future». Il passo successivo va dal modello virtuale alla prototipazione, ossia alla produzione di un oggetto reale mediante stampa 3D. Ad esempio il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria a Perugia ha avviato in questi mesi con lo studio 3D Archeolab la scansione di reperti sia per realizzare una banca dati consultabile online, sia per stampare a scala reale copie destinate ad attività didattiche e all’allestimento di un percorso di visita tattile per non vedenti. Nel 2013 l’Università di Harvard ha effettuato una scansione e ristampato in 3D un leone della civiltà Nuzi di proprietà della University of Pennsylvania, per integrare l’esposizione del proprio esemplare, ritrovato nel 1930 insieme al primo. Non solo l’antico: nel giugno scorso due artisti di San Francisco, Bryan Cera e Scott Kildall, hanno stampato gli scacchi personali di Duchamp. I due hanno creato la replica non a partire dai pezzi originali ma dallo studio delle fotografie.
Ready remade? Dalla scansione alla copia al restauro. Nel 2012 sono state ripristinate le braccia del gesso della
Danzatrice di Canova, alla gipsoteca di Possagno; una granata austriaca le aveva distrutte nel 1917 e la veneta Unocad ha effettuato la scansione della versione in marmo al museo Bode di Berlino. Quindi una macchina in poche ore ha costruito le protesi aggregando strati di polvere di gesso. L’integrazione è totalmente reversibile. Con la stessa tecnica a Possagno sono stati affrontati i restauri dei gessi della
Paolina Borghese e recentemente delle
Tre Grazie e del
Principe Lubomirski. Questa estate l’inglese Loughborough University ha completato un progetto di restauro di pezzi, da gioielli a cancellate lignee fino a statue colossali, della Città Proibita a Pechino. «Il grande vantaggio di queste tecniche sta nel fatto che non sono invasive – dice Cinzia Parnigoni, autrice del restauro del
David. – Poco tempo fa mi è stato chiesto un progetto di restauro di una scultura con mani molto compromesse. Il rischio che durante l’intervento si rompano è elevato. Abbiamo perciò pensato di realizzare un rilievo 3D per averne in archivio una copia, nel caso succeda il peggio. Così si potrà in futuro restituire l’integrità». In realtà nel restauro, spiega Parnigoni, i casi di reintegro sono rari, ma anche piuttosto costosi: «Mi è capitato di integrare un Verrocchio rifacendo le parti mancanti prima con modelli in plastilina poi in gesso con controforme e quindi con il lavoro dello scultore. Con il digitale tempi e costi si abbattono». L’esito finale, comunque, dipende dalle scelte dei funzionari che dirigono il restauro: «In certi casi la richiesta è la riconoscibilità dell’integrazione, in altri casi è un lavoro mimetico: dipende dalla sensibilità dei singoli». Opere d’arte, ma anche strumenti musicali e auto d’epoca. Non c’è ramo che non venga coinvolto. Architettura compresa. Nel settembre scorso in Florida è stato presentato il restauro della Annie Pfeiffer Chapel di Frank Lloyd Wright. L’edificio è stato realizzato con mattoni sagomati uno a uno per ottenere particolari
texture, modanature e profili. Molti elementi si presentavano ormai logori, ma il ripristino di migliaia di questi pezzi con tecniche tradizionali aveva costi enormi. In 12 mesi, con un budget di soli 400mila dollari e una stampante da tavolo, l’edificio è stato restaurato grazie al 3D: sono stati modellati gli stampi dei diversi mattoni. Molti oltreoceano hanno gridato alla nuova frontiera, ma Maria Antonietta Crippa, docente di Storia e tecnica del restauro al Politecnico di Milano, invita alla prudenza: «Un intervento che conserva l’immagine ma non la realtà di fatto, in Italia non lo chiamiamo restauro». Verrebbe a mancare, in sostanza, l’originale: «La riproduzione potrebbe anche essere perfetta al millimetro, ma si tratterebbe sempre di una copia: c’è una identità di immagine ma non di sostanza. Un intervento simile potrebbe essere accettabile solo nel caso di piccole lacune, ma non di grandi strutture». Il restauro all’italiana prevede la conservazione del materiale specifico: «Si accetta la superficie che il tempo ha lavorato. È un atteggiamento prudenziale, basato su una lunga esperienza, che tiene conto delle stratificazioni». Secondo Crippa non è un problema di tecnologia ma di mentalità: «L’uso del 3D è ad esempio fondamentale per la prosecuzione della Sagrada Familia, a Barcellona. È impiegato per studiare le complesse geometrie interne e le regole proporzionali dei modelli in gesso di Gaudì. Nel restauro, e ancora prima nella conservazione, queste tecnologie possono esser utili come studio a monte ». La retorica del «dov’era com’era » è a un passo: «E dietro di lei si annida la falsificazione. Spesso si parla di un’opera riportata 'all’originale splendore'. Ma l’originale non c’è mai, e lo splendore è solo l’illusione del nuovo. L’unico metodo è rispondere ogni volta alla domanda: quale vantaggio offre il restauro? Il mio interlocutore, l’opera, dice: non mi toccare se non ne hai ragioni adeguate. Devo provare razionalmente a me stesso ogni scelta. Altrimenti finisco per mitizzare ogni novità: un tempo ci fu il mito del cemento armato, oggi quello del 3D».