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Come le piume, sparse ovunque dopo che il cuscino è stato squarciato, perse irreparabilmente, impossibili da recuperare. Così, nel 2005, quando Facebook era ancora un servizio per pochi universitari e gli altri social media di là da venire, il giornalista americano John Seigenthaler si riferiva alle informazioni false che circolano su Internet. Parlava per esperienza personale: la voce che lo riguardava su Wikipedia aveva riportato per qualche mese una notizia falsa e infamante, il suo coinvolgimento negli assassini di John e Robert Kennedy, con cui aveva avuto rapporti come consulente. Una volta rimosso il contenuto dall’enciclopedia, erano spuntati svariati siti che continuavano a riportarlo e a cascata altri che a loro volta lo replicavano. Oggi le piume, grazie alle reti sociali, si spargono in modo ancora più facile e pervasivo. Non sempre si tratta di falsità totali: spesso, soprattutto nel campo delle immagini, ci troviamo di fronte a contenuti veri ma non relativi al fatto di cui si sta dando notizia. Di recente il caso più eclatante è stato il video diffuso immediatamente dopo gli attentati all’aeroporto di Bruxelles, in realtà girato durante le esplosioni avvenute a Mosca nel 2011, che è stato rilanciato in Italia da svariati siti di quotidiani e magazine online (tra i più tempestivi a smascherarlo proprio Avvenire.it).Il web è un terreno insidioso, dove nessuno può sentirsi completamente al sicuro da bufale e falsificazioni. E se è vero che la disinformazione esiste da sempre, è certo che nei meccanismi della Rete trova l’ambiente ideale per attecchire e prosperare. Quando una notizia ci è segnalata da un amico su Facebook tendiamo ad abbassare la guardia, a crederci rinunciando a farci troppe domande, soprattutto se si tratta di una conferma delle nostre convinzioni. «La più grande sfida per aumentare la qualità dell’informazione che circola in Rete è proprio aiutare il pubblico a rendersi conto di come le proprie opinioni condizionano il modo in cui si vede la realtà – spiega Craig Silverman, nuovo direttore dell’edizione canadese di Buzzfeed, il sito di news e intrattenimento più popolare del Web, uno dei maggiori esperti di verifica delle fonti –. Se leggiamo qualcosa che contrasta ciò in cui crediamo tendiamo a rifiutarlo e ritenerlo automaticamente falso. Questo fa sì che oggi su internet si assista a una marcata tendenza a estremizzare le posizioni, vivendo di fatto in mondi separati che non riescono più nemmeno a discutere fra loro». Silverman, che abbiamo incontrato a Perugia in occasione del recente Festival internazionale del giornalismo, cita a questo proposito le ricerche di Walter Quattrociocchi dell’Istituto di Alti Studi Imt di Lucca, che ha dimostrato sul campo le dinamiche e gli effetti di tali forme di polarizzazione delle posizioni su internet. Certo, una buona parte di responsabilità in questo processo va attribuita alla tecnologia: i servizievoli algoritmi di Facebook ci hanno ormai abituati a ricevere una gran quantità d’informazioni che cercano di soddisfare i nostri interessi e ad assecondare le nostre opinioni. Tendiamo così a perdere l’abitudine al confronto d’idee e al dibattito, per chiuderci in “tribù” di simili che la pensano allo stesso modo. Al punto che in alcuni casi – è la conclusione di una delle ricerche di Quattrociocchi – smascherare le bufale può risultare del tutto inutile perché le persone continueranno a crederci pur di non mettere in crisi le proprie opinioni.«Eppure, mai come oggi si registra la nascita di iniziative che si propongono di combattere la disinformazione online, favorendo la diffusione di pratiche di controllo dei fatti (
fact checking) e verifica delle fonti. Per questo sono piuttosto ottimista», continua Silverman, autore fra l’altro di un sito e di un libro intitolati
Regret the error (Rimpiangere l’errore). Non a caso nel settore stanno investendo personaggi di spicco della Rete, come Pierre Omidyar, fondatore di Ebay, e la stessa Google, che con la sua iniziativa Google News Lab finanzia First Draft coalition, una delle organizzazioni più attive in questo campo, della quale è membro lo stesso Silverman. «Con iniziative del genere ci rivolgiamo soprattutto ai professionisti dei media, che hanno una rilevante responsabilità nel decidere di non divulgare una notizia sospetta o falsa. Spesso l’attenzione puntata esclusivamente sulla velocità porta a ridurre o eliminare del tutto gli indispensabili controlli. Molti giornalisti ritengono che la verifica sia un processo troppo lungo e laborioso. In realtà esistono diversi strumenti, anche gratuiti, che consentono di fare un primo controllo sulla fonte nel giro di 5-10 minuti. Spesso chi scrive o diffonde una foto o un video non considera che il pubblico si ricorderà a lungo di un suo eventuale errore con l’effetto di veder compromessa la sua credibilità, mentre se arriverà a dare una notizia con qualche attimo di ritardo nella maggior parte dei casi nessuno lo noterà». Se per i professionisti non mancano i servizi e gli strumenti – molto utilizzato è anche Storyful, specializzato nelle verifiche di video provenienti dai social media –, come aiutare la grande massa di utenti della Rete a salvarsi dalle bufale? «Non credo che in questo caso siano necessari particolari strumenti tecnologici. È più una questione di acquisire i rudimenti di
media literacy, una serie di competenze che ci rendono più consapevoli e critici verso ciò che leggiamo e vediamo: più inclini a chiederci “da dove viene questa informazione?”, “chi può avere interesse a diffonderla?”. Penso che questo sia compito delle università e delle suole superiori: ci sono già casi del genere negli Stati Uniti. I media e le istituzioni educative insieme potrebbero fare molto per aiutare la gente a leggere in modo più critico tutto quanto passa tra le loro mani ». Ed evitare così di far soffiare più forte il vento che propaga le piume della disinformazione.