martedì 24 novembre 2015
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Quando si chiede alla geografa irlandese Anne Buttimer cosa pensa dell’umanesimo, il suo sguardo s’illumina. Perché per lei non si tratta di una corrente come un’altra dell’umano sentire, ma di un rifugio profondo d’ordine esistenziale: «È il grido giunto dritto dal cuore che l’umanità esprime quando degli aspetti fondamentali della nostra condizione sono calpestati o dimenticati. O, ancora, quando certe idee erompono in modo assolutamente gratuito e per questo possono cambiare il mondo. Quando si esprime, questo grido del cuore è riconosciuto e accettato. L’umanesimo ricorda il simbolo classico della fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri». Unica donna ad aver presieduto l’Unione geografica internazionale, vicepresidente della prestigiosa Academia Europaea, la studiosa è fin dagli anni Settanta fra gli alfieri più noti della sensibilità umanistica nella comprensione del dialogo ecologico che uomo ed ecumene intrecciano dalla notte dei tempi. Uno dei volumi sintetici più celebri da lei curati, The human experience of place and space, è uscito quest’anno in nuova edizione nelle librerie anglosassoni per Routledge. Proprio nelle stesse settimane della Laudato si’ di papa Francesco, che Anne Buttimer ha subito sfogliato: «In questo testo c’è il sapore di una rinascita. Leggendolo, mi sono detta che il Papa è un geografo mancato. Sono impressionata dalla passione contenuta in quest’enciclica, soprattutto perché l’autore e il testo mi sembrano molto credibili». Nel corridoio della sua casa alle porte di Dublino, la studiosa mostra i riconoscimenti ottenuti in tutto il mondo, Italia compresa. Fra questi, il premio “Vautrin Lud”, ricevuto l’anno scorso in Lorena nel quadro del Festival internazionale della geografia di Saint-Dié-des-Vosges e sovente considerato come il “Nobel della geografia”. In proposito, la studiosa è felice che l’edizione di quest’anno dell’evento abbia appena affrontato il tema stimolante dell’“immaginario geografico”: un ingrediente indispensabile per nutrire una visione umanistica dell’ecologia e per tentare così di rendere il mondo armoniosamente abitabile per tutti. Una sfida, questa, di cui la Buttimer riconosce l’estrema complessità, soprattutto quando pensa a certe odierne derive tecnocratiche, persino sulle coordinate più basilari e salienti della “geograficità” umana (il legame quotidiano e intimo che gli individui instaurano con l’ambiente circostante), come quel cibo che è stato per mesi al centro dell’Expo: «Biasimo Bruxelles per la sua concezione di un cibo da produrre per un consumo su una scala geografica sempre più larga, senza troppa attenzione per le specificità percepite in ogni Paese e gli irripetibili apporti locali, frutto spesso di secoli d’intelligenza ». Più in generale, la studiosa deplora il fatto che «viviamo al centro di pianificazioni spaziali che non hanno sempre considerato l’enorme importanza del senso dei luoghi, non solo per i bambini e gli anziani, ma per chiunque vi investe delle energie emotive e psicologiche». Cambiando rotta, i vertici europei dovrebbero imparare ad «affrontare il nodo della sostenibilità in una logica sempre meno imposta dall’alto, ma al contrario ricettiva rispetto alle sensibilità locali». C’è una necessità urgente di riannodare i fili delle nostre società con una sensibilità geografica spesso ancora poco valorizzata. Persino nel mondo universitario, dato che il posto di rilievo che la geografia e le discipline ambientali e territoriali conservano nei Paesi anglosassoni e dell’Europa del Nord appare talora un miraggio altrove: compresa l’Europa mediterranea, dove la distinzione di fondo fra le tecniche ormai sofisticate di produzione o visualizzazione cartografica e il vasto insieme dei saperi geografici non è sempre chiara ai giovani e dove la materia è sempre più penalizzata nelle scuole, come in Italia. Da qui, la linea di difesa che la Buttimer ci espone: «Come la filosofia, la geografia ha per vocazione di mostrare i legami potenti fra scienze sociali e scienze fisiche. È una via per affinare una visione comprensiva delle cose e sfuggire a ogni forma di determinismo, quando si guarda al rapporto fra società e ambiente». Per la studiosa, prima o poi, i legami fra “geograficità” e attualità salteranno agli occhi un po’ dappertutto: «Oggi, la geografia ha due grandi sfide: lo sviluppo sostenibile e la coppia migrazioni- integrazione. La geografia permette di affrontare questi fenomeni nella loro interezza. Se occorrono esperti in ogni campo, ogni specialista deve pure interessarsi all’intero quadro». Più che mai, osserva la studiosa, conviene non smarrire per strada un concetto che affascina da secoli la nostra civiltà: «Il paesaggio dovrebbe tornare centrale come espressione delle interazioni fra ecologia, economia e vitalità sociale. Evidentemente, il paesaggio è molto legato all’identità e anche in questo senso occorrerebbe rimetterlo al centro del dibattito e delle politiche sulla vivibilità». È un campo in cui l’Italia ha ancora molto da dire al mondo, anche perché «i paesaggi italiani restano uno specchio di certi caratteri profondi dell’italianità». Di sensibilità paesaggistica, la studiosa ha molto scritto, affrontando di recente pure il tema dei luoghi sacri: «In molte civiltà, la presenza del sacro è rivelata dall’esperienza della natura: alberi, montagne, acqua. Come il Gange per gli induisti. Non è sorprendente. È molto più naturale credere che non il contrario. L’ateismo o l’agnosticismo rappresentano concezioni molto recenti e molto occidentali».
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