Il cuciniere del mondo, le lenticchie di Esaù, l’insofferenza verso gli chef stellati che – chissà come mai – sono tutti maschi. «E le donne che ogni sera portano la cena in tavola, eh? Quelle non le ringrazia mai nessuno, eppure sono loro a custodire il vero valore del cibo», dice Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e di Terra Madre. Milano, una mattina un po’ grigia di metà dicembre. I cantieri di Expo 2015 sono a pochi chilometri di distanza e nella sede di Avvenire si parla di come dovrebbe essere – e di come può ancora essere – l’evento planetario sul quale negli ultimi mesi si sono radunate le nubi dello scandalo e del malaffare. Motivo in più per tornare alla radici della questione, riscoprendo l’importanza e le inesauribili suggestioni del tema con cui, nel 2008, l’Italia vinse il concorso internazionale per l’assegnazione dell’Expo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ne discutono con Petrini due firme prestigiose di Avvenire: Luigino Bruni, teorico dell’economia di comunione, e il critico enogastronomico Paolo Massobrio.
Finora l’opinione pubblica si è concentrata più sulle notizie di cronaca, non sempre lusinghiere, che sui contenuti di Expo 2015. Quali sono? E quali dovrebbero essere?Petrini: «Quelli che ci eravamo prefissi nella fase preparatoria, mi verrebbe da rispondere. Ho fatto parte del comitato che sosteneva la candidatura dell’Italia, promuovendo un’Expo con le caratteristiche della sostenibilità. Costi molto bassi, strutture leggere, l’impegno a riconsegnare i terreni all’agricoltura una volta conclusa la manifestazione. Di questa impostazione, purtroppo, non rimane nulla. Ma due aspetti possono essere ancora valorizzati. Il primo riguarda una maggiore sensibilità nei confronti delle distorsioni del sistema alimentare, talmente ingiusto da danneggiare sia l’umanità sia il pianeta. L’umanità, perché morte per fame e malnutrizione vanno di pari passo con le patologie dell’iperalimentazione e con lo scandalo dello spreco di risorse. Sulla Terra vivono 7 miliardi e 300 milioni di esseri umani, il cibo attualmente prodotto sarebbe sufficiente per sfamarne 12 miliardi, ma il 40% non viene impiegato e così 850 milioni di persone sono malnutrite. Il danno per il pianeta, poi, sta nella tendenza a pretendere sempre di più dalla terra, ricorrendo ad ausili chimici, adoperando l’acqua in maniera smodata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: dal 1900 a oggi è andato perduto il 70% delle biodiversità. Il secondo aspetto riguarda la concezione della gastronomia. Che non è quella degli spadellamenti televisivi, ma di una scienza olistica, nella quale confluiscono i saperi più diversi, dalla fisica all’antropologia, dalla chimica all’economia politica». Bruni: «Vero, il cibo è una realtà che ne racchiude molte altre e, per quanto riguarda l’Expo, sarebbe già un buon risultato riuscire a risvegliare la consapevolezza di questa complessità. Dal mio punto di vista, considero urgente il riconoscimento del fatto che l’accesso al cibo costituisce un diritto fondamentale della persona. Anzi, è un diritto che precede tutti gli altri diritti, una forma di libertà dal bisogno che è la premessa di ogni libertà civile. In questa prospettiva, mi pare che ci sia spazio per declinare il tema della biodiversità, giustamente evocato da Petrini, in termini ancora più ampi. Dobbiamo evitare il riduzionismo alimentare, d’accordo, ma nello stesso tempo dobbiamo fare il modo che sia preservata la biodiversità economica e sociale. Sto dicendo che non può esistere un solo modo di fare impresa, di gestire una banca o di costituire una comunità. È una questione di democrazia rispetto alla quale, ancora una volta, il cibo gioca un ruolo fondamentale. C’è da riscoprire, per esempio, il valore della sussidiarietà, per cui le decisioni che riguardano il cibo vanno prese da vicino, sul territorio, mentre da lontano si può agire appunto in forma sussidiaria. Più che altro, occorre un ripensamento profondo di un’usanza ormai completamente trascurata in ambito occidentale. Mi riferisco al maggese, al riposo sabbatico della terra. Perché la terra, come il tempo, non appartiene a nessuno, né può essere oggetto di scambio. Il motivo per cui il cibo non può essere ridotto a merce sta nella sua natura relazionale. In tutte le culture si mangia insieme perché il “pane quotidiano”, come ricorda Enzo Bianchi, è sempre “nostro”, fonda la comunità, riorganizza i rapporti. Non è un ragionamento astratto: penso alla lezione di Amartya Sen sulle carestie, la cui vera causa non sta tanto nella penuria di cibo, quanto nello spezzarsi dei rapporti sociali. Il cibo c’è, magari in abbondanza, ma è la condivisione a venir meno. Esattamente come sta avvenendo oggi su scala mondiale».Massobrio: «Anch’io, come Petrini, ho partecipato alla fase preparatoria di Expo 2015, anch’io ricordo l’entusiasmo di allora e anch’io condivido il timore che adesso non si riesca a fare sintesi delle innumerevoli ricchezze che l’Italia racchiude in sé. Ma non voglio essere pessimista. Al contrario, ritengo che sia opportuno ricordare i motivi di quella assegnazione. L’Expo 2015 si svolge a Milano perché il nostro Paese è stato riconosciuto come un terreno di esperienze, fragile nei suoi confini e più volte invaso da altri popoli nel corso dei secoli, ma proprio per questo capace di elaborare una straordinaria diversità di nuclei abitativi, di tradizioni, di saperi che ora si sono diffusi in tutto il mondo. Ecco, l’Italia è stata scelta per questo. Ed è stata scelta per una esposizione universale, non per una sessione della Fao. Da Milano non si attendono risposte immediate, ma un’occasione di incontro e contaminazione fra le culture alimentari del pianeta. Detto questo, un contenuto a mio avviso deve emergere ed è proprio quello dal quale, stranamente, si continua a distogliere lo sguardo. È il grande tema dell’ordine che presiede alla vita in generale e al cibo in particolare. L’alternarsi di notte e giorno, il susseguirsi delle stagioni, l’ambiente al quale apparteniamo: tutto è regolato da un ordine fuori dal quale non può esserci se non disordine. Con questo si torna alla questione, spinosissima, delle patologie dell’alimentazione, sempre più diffuse e paradossali. Prendiamo l’obesità, presente ormai anche in molti Paesi poveri, nei quali le diete tradizionali sono state sostituite dal menu imposto da quello che chiamerei il “cuciniere del mondo”, l’entità impersonale che un domani potrebbe decidere di nutrirci con una pillola, purché risulti conveniente e permetta di guadagnare di più. Resta il fatto che Dio, quando ha creato l’uomo, non lo ha predisposto a ingoiare pillole, ma a provare piacere grazie al cibo. Questo è mistero, ma è di questo mistero che l’Expo dovrebbe occuparsi».Negli ultimi decenni la sensibilità teologica ed ecclesiale nei confronti dell’ecologia è cresciuta sempre di più. Ma in Expo 2015 ci sarà spazio per una dimensione spirituale?Bruni: «Di sicuro si profila un’opportunità per dare risalto alla visione cristiana della custodia del creato, terza via possibile rispetto all’ecologismo estremo e all’antropocentrismo esclusivo. Il mandato di Dio ad Adamo per la custodia della natura è espresso con lo stesso verbo ebraico, shamàr, che da lì a poco tornerà nella protesta di Caino a proposito di Abele: sono forse il custode di mio fratello? Nella Bibbia “custodire” contempla la sfumatura dell’“accudire” e rimanda sempre alla necessità di prendersi cura dell’altro in quanto alterità. L’altro è la natura e l’essere umano, il fratello e la terra. La disciplina del riposo sabbatico è la stessa del maggese, in entrambe agisce la medesima esigenza di dare e ritrovare respiro. Sono persuaso che il linguaggio dell’umanesimo biblico si adatti perfettamente alla nostra condizione postmoderna. Provo ad argomentarlo rifacendomi a tre immagini, a tre episodi che tutti abbiamo in mente. Il primo è la parabola evangelica di Lazzaro e del ricco Epulone, che invita a ribaltare il modo in cui di solito si guarda a fame e malnutrizione. Lo sguardo non può essere quello di chi si ingozza e, tutt’al più, lascia cadere qualche briciola sotto il tavolo. No, lo sguardo cristiano coincide con quello di chi raccoglie le briciole, come i tanti mendicanti di cibo che affollano le strade del mondo. Anche qui, a Milano, nella città che sta preparando l’Expo e che non può dimenticarsi dei suoi poveri. La seconda immagine è dello stesso tenore. Lo scambio tra Giacobbe ed Esaù rappresenta il primo contratto documentato dalla Bibbia, ed è un contratto iniquo. Non si fanno accordi con chi ha fame, perché in cambio del cibo (il famoso patto di lenticchie) si è disposti a cedere su tutto, perfino su quanto si possiede di più prezioso (la primogenitura). Questa è anche la grande lezione dell’Esodo, il terzo testo a cui vorrei richiamarmi. Nel deserto il popolo si lamenta perché manca di pane e acqua e Dio dà ascolto, interviene, perché una preghiera simile non può non essere esaudita. Altrimenti subentra il rimpianto per la schiavitù, quando almeno si mangiavano carne e cipolle. Un monito oggi più attuale che mai: non è l’abbondanza di cibo a rendere liberi, perché c’è una schiavitù morale che passa anche e specialmente dai bisogni elementari. La libertà, lo ripeto, è il primo cibo di cui dobbiamo nutrirci». Petrini: «Mi rifaccio all’esperienza di Terra Madre, la rete che da dieci anni riunisce le comunità del cibo di tutto il mondo. I Paesi coinvolti sono 175, ciascuno con la sua cultura, anche religiosa. Tutti concordano su una convinzione fondamentale: la terra è nostra madre. Non per tutti sarà la Pachamama venerata dalle popolazioni mesoamericane, ma tutti hanno ben presente questo elemento femminile. Altro che gli chef stellati, e sempre maschi, della tv. In ogni parte del pianeta sono le donne a tenere viva la dimensione sacrale del cibo. Silenziosamente, fedelmente, senza che nessuno le ringrazi mai. Non è un caso che tutte le cosmogonie concordino sul dato primordiale della terra che è madre, capace di generare e insieme di nutrire. Sono visioni differenti da quella cristiana, ma che vanno parimenti rispettate e comprese. Se dovessi indicare un valore comune dal quale ripartire per recuperare questo patrimonio dimenticato, mi rifarei alla fraternità, la Cenerentola della Rivoluzione francese. In nome della libertà ne abbiamo combinate di tutti i colori, e quanti morti in nome dell’uguaglianza! Ma ci siamo dimenticati la fraternità, che significa ascolto, comprensione dell’altro al di là delle differenze, riconoscimento del fatto che, essendo nati dalla medesima terra, siamo comunque fratelli. Deriva da qui il concetto stesso di “comunità”, centrale in Terra Madre. I pilastri della nostra storia sono stati finora l’intelligenza affettiva, che viene in soccorso alle capacità esclusivamente razionale, e qualcosa che mi piace definire “austera anarchia”. Ognuno rispetta la sovranità alimentare dell’altro, nessuno si illude di possedere soluzioni adattabili a qualsiasi circostanza. Un campesino della Patagonia non ha bisogno di un esperto occidentale che gli suggerisca la semente. Lui sa già che cosa coltivare, ha dalla sua una tradizione millenaria che, semmai, va rafforzata e riscoperta. Per questo sarei un po’ più prudente dell’amico Massobrio per quanto riguarda l’enfasi sull’italianità che l’Italia dovrebbe esprimere in Expo 2015. È una prospettiva che condivido, purché sia declinata in maniera accogliente: noi mettiamo in mostra i nostri saperi e il resto del mondo fa altrettanto. Alla pari, con spirito di fraternità. Non è, purtroppo, l’immagine che l’Italia sta dando in questo momento. Ci crediamo ancora i più furbi, fremiamo in attesa dei turisti che, si dice, arriveranno a milioni, stiamo preparando una kermesse che rilancerà la crescita. Ma quale crescita? La vicenda dell’Expo ruota intorno a questa domanda, che è economica e spirituale insieme». Massobrio: «Da cristiano mi viene da osservare che il grande nemico contro il quale siamo chiamati a confrontarci oggi è l’omologazione. L’appiattimento è l’operazione diabolica per eccellenza, perché toglie la memoria e rende impossibile ricostruire il tragitto dell’esistenza. Da dove si viene, dove si sta andando, da chi si ha ricevuto tutto. La nostra è, tra l’altro, una società che non riconosce più il valore altamente religioso del cibo stagionale. Pensate alla potenza del gesto che facevamo le nostre madri quando portavano in tavola le ciliegie, le fragole, i cachi. Era un modo per ricordare che in quel tempo la terra dava quel frutto, ed era la stessa visione mistica che santa Ildegarda di Bingen custodiva nel cuore del Medioevo. In Europa tutta la storia del cibo è storia spirituale, fittamente intessuta con quella del monachesimo, al quale dobbiamo l’architettura complessiva della moderna cultura del cibo, dalla bonifica agricola delle paludi fino alle meraviglie del vino di Borgogna, passando dall’assegnazione del posto a tavola. Nel momento in cui prova a cancellare questa origine, l’Europa perde di vista i motivi profondi dell’impresa monastica, che si basava sulla volontà di rispettare ed esaltare la terra in ogni sua forma espressiva. Non penso ai monasteri in quanto tali, ma alle comunità, non di rado assai popolose, che intorno ai monasteri si radunavano. Tutto questo non può essere dimenticato, questa radice non può essere strappata. Ma attenzione, perché la vera memoria si compie nel riconoscimento dell’altro. L’Europa deve ricordare se stessa e, intanto, guardare alle altre tradizioni, assimilarne la ricchezza. Senza mai cadere nell’omologazione, però. Decisivo, per me, è il principio di restituzione, che in questo senso, e solo in questo senso, chiama in causa l’Italia. Non dobbiamo imporci come modello, è vero, ma non possiamo neppure permettere che i modelli siano dettati dalle multinazionali». Ormai è chiaro che il cibo chiama in causa molte suggestioni di tipo simbolico e valoriale. Una simile prospettiva è indispensabile, ma Expo 2015 non sarà soltanto questo. Che cosa manca, oggi, in concreto? Petrini: «Manca la politica, ma questa non è una carenza solo milanese o italiana. Soffriamo dell’assenza di una governance planetaria, che sappia gestire in modo adeguato un dramma come quello della fame. Basterebbero 34 miliardi di euro per fermare questo flagello. Perché i soldi si trovano per salvare le banche e non per salvare vite umane? Papa Francesco è oggi l’unica autorità a livello mondiale che abbia il coraggio di affrontare con chiarezza questi temi. Il suo discorso alla Fao del novembre scorso è un documento di forza politica dirompente. Peccato che in pochi se ne siano accorti». Massobrio: «Non dobbiamo arrenderci alla latitanza della politica. L’Expo dell’anno prossimo ci riguarda direttamente, è qualcosa che accade nella nostra nazione, nel nostro presente. Come se non bastasse, il tema della manifestazione fa perno su una parola cruciale, “vita”. Come uomini e come Paese, non possiamo correre il rischio di rappresentare davanti al mondo intero le nostre solite divisioni. Dobbiamo alzare lo sguardo per agire subito, finché c’è ancora tempo, sul piano della riflessione e della comunicazione». Bruni: «Finora abbiamo parlato di cibo, ma forse la vera posta in gioco è rappresentata dal corpo o, meglio, dalla vulnerabilità che accomuna il corpo umano alla natura. Qualcosa che la nostra società fatica ad accettare, e di cui, quindi, dobbiamo riappropriarci. L’Expo si presenta come una grande opera, ma la prima grande opera di cui la Bibbia dà testimonianza non è la torre di Babele: è l’arca su cui tutte le specie trovano rifugio quando la terra, devastata dal diluvio, rivela la sua fragilità. E Noè, il primo costruttore, è anche il primo vignaiolo, colui che scopre il procedimento per stillare il vino dall’uva. Ma vorrei concludere con un altro primato, che mi pare molto significativo. Il primo salario citato nel testo biblico riguarda, ancora una volta, il cibo: un nutrimento essenziale, femminile, materno. È lo stipendio che la figlia del Faraone promette alla nutrice per tenere a balia il piccolo Mosè. L’origine del cibo ha sempre a che vedere con le donne. Anche per questo Expo 2015 non può piegarsi a una logica di predominio commerciale».