Più passa il tempo e più sembra rendersi chiaro come Jacques Derrida sia stato, forse dirlo può suonare paradossale, il pensatore ebraico per eccellenza del XX secolo; ebraico nel modo di pensare, più che nelle tematiche; e per certi aspetti erede conseguente di Spinoza, colui che recupera Spinoza alla storia del pensiero ebraico (dopo che era stato rifiutato come eretico panteista). Se Emmanuel Lévinas ha sviluppato una filosofia dell’altro su cui il cristianesimo può trovare appigli significativi per interrogare se stesso, viceversa Derrida è stato il pensatore che più ha portato alla luce come il metodo midrashico applicato alla filosofia la renda quasi contraddittoria rispetto alla linea occidentale di derivazione ellenica o metafisica (diciamo platonica e cartesiana). Andare al di là del senso letterale, come vuole il Midrash, nella filosofia significa mettere alla prova la metafisica occidentale. La sua idea di verità che, con Spinoza, si lega sempre più al sentire, alle affezioni del corpo, così come idee e pensieri nascono dalla mente (secondo l’identificazione Dio-natura). Riferendosi al
Trattato teologico- politico, e uscendo dai binari principali del
logos occidentale, Derrida scrisse che «l’idea di Spinoza non dà luogo a nessuna rappresentazione, mimetica o meno […]. Spinoza la oppone alla tradizione, segnatamente all’idea cartesiana, come l’atto o l’affermazione si oppone alla copia riproduttiva, o anche al suo modello». Se si intende la decostruzione come un processo infinito, non resta niente. Nemmeno il pugno di mosche. Neppure l’aria contenuta nel pugno, perché, alla fine, non esiste più neanche il pugno che dovrebbe contenerla. Ma quel niente è il fine stesso della decostruzione. La sparizione dell’oggetto “storico” come referente. Se non resta niente è chiaro che la decostruzione diventa la filosofia che trova il proprio fine in se stessa, opposta ma, in sostanza, analoga nella pretesa alla
méthode cartesiana: non solo metodo, appunto, ma
pars destruens, idea e fine del pensare stesso. Paul Ricoeur in uno dei suoi primi saggi coniò l’espressione “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud) e il sospetto è diventato il metodo del nostro tempo. Derrida l’ha incarnato nella critica del linguaggio che nella differenza scopre la variazione profonda e sottile della verità, quasi una
nuance, che però ha l’effetto di un’apocalisse: non diceva forse Warburg, il grande demitizzatore delle immagini, che Dio si nasconde nel dettaglio? Per Derrida Dio si trova negli interstizi del linguaggio scritto, parlato, visivo, fabbricato, pensato ecc. Nel volume
Pensare al non vedere, appena uscito da Jaca Book a cura di Alfonso Cariolato (pagine 396, euro 30) sono raccolti i “parerga e paralipomena” di Derrida sulle «arti del visibile». Venticinque anni di saggi o testi eterogenei, ma tutt’altro che “marginali”; oppure, se si si vuole, veri
marginalia che hanno assunto piena dignità di testo principale. Non frammenti e neppure “rovine”, ma verifica sui punti periferici di una metodologia che dopo aver decostruito le “grammatologie” del pensiero occidentale, le sue tecniche del senso (ovvero la manipolazione dei molteplici centri di potere che è diventata verità incontestata in quanto trasmessa dalla tradizione: qui è da intendersi come storia, in una prospettiva del tutto razionale). Decostruire è la risposta alla domanda, a qualsiasi domanda, anche quelle sul visibile: che cos’è l’arte? qual è la sua origine? che senso ha? Non vuole affer- mare, Derrida, perché ogni affermazione ricade nel dominio della metafisica. Vuole smontare, esaminare, come un meccanico del linguaggio, viti, bulloni, pistoni e bielle di un motore che gira troppo bene; vuole grippare il significato prestabilito del nostro legame con la realtà. Ma esiste ancora una realtà nel suo discorso? Derrida è difficile, avvisa subito il curatore nella sua introduzione. È difficile, complesso, certo, ma tutt’altro che criptico. O meglio, è anche questo, ma soltanto perché la “decostruzione” portata ai suoi limiti funge da smantellamento di quelle sovrastrutture che il potere ha imposto all’esistenza, e lo scopo finale forse è il medesimo che Spinoza individua nel
conatus: l’estremo impulso alla conservazione della vita come felice riconciliazione con la necessità insita nel fatto stesso di essere parte di una natura che ha in sé lo spettro divino. Si deve notare che c’è qualcosa di identitario in Derrida che rimonta, se vogliamo, alla radice stessa di ciò che è ebreo: “
Ivri”, che probabilmente deriva da “
ever” e nell’ebraico corrisponde all’attraversamento, all’andare oltre, al di là, sulla “sponda opposta”. La mentalità midrashica è proprio questa: andare oltre, in profondità, come un pesce da fondale che batte zone poco illuminate e si nutre di un plancton quasi invisibile. La decostruzione dell’immagine che Derrida inscena è una specie di messianica apocalisse dell’inizio. Qualcosa di analogo ha cercato di fare Blumenberg in un’ottica post-illuminista. Derrida, pensatore raffinato, razionale e determinato a rompere quel velo perturbante che si cela nell’immagine, usa la categoria dell’impossibilità come arma per negare ogni consustanzialità fra la rappresentazione e il suo oggetto: c’è l’immagine di quella cosa, ma se la smonti non è detto che troverai quello che pensi. L’origine dell’arte potrebbe non essere l’arte, oppure l’arte potrebbe essere l’origine del suo stesso fine: l’arte (cioè la negazione di ogni mimetismo e di ogni dipendenza da “altro”). L’oggetto misterioso. L’irriducibile o l’impossibile che si è materializzato. Scavando e scavando, non basta più neppure chiamarle arti al plurale: ogni singola arte ha un plurale in se stessa, e così si procede verso un abisso che non consente di rappresentarne il senso (ma in fondo nemmeno il fine). Il divieto ebraico di farsi immagini di Dio in Derrida si manifesta come contrappunto al kantismo che, nella
Critica alla capacità di giudizio, afferma: «La
bellezza è la forma della
finalità di un oggetto in quanto essa vi viene percepita senza la rappresentazione di un fine». E Derrida ha notato: «Senza finalità non c’è bellezza. Ma non c’è neppure se una tale bellezza fosse determinata da un fine». E Cariolato, a sua volta, conclude: «La finalità è, nel contempo, necessaria e impossibile». Il tema di tutta la filosofia di Derrida. Così la dialettica degli opposti svela il falso metodologico. La sintesi, in Derrida, è l’impossibile stesso. Non se ne esce? Solo in un modo: ricollocando il pensiero di Derrida nell’ebraismo e nella concezione dell’irrappresentabile che, non più legge divina, diventa nietzscheano principio di smascheramento del visibile.