martedì 4 novembre 2014
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Il libro
Il teologo di Aparecida
Carlos María Galli è sacerdote e teologo, docente all’Università Cattolica Argentina e già presidente della Società argentina di Teologia; nel 2007 ha lavorato a fianco del cardinale Jorge Mario Bergoglio alla stesura del Documento di Aparecida. Ora appare in Italia, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana, il suo corposo saggio «Dio vive in città. Verso una nuova pastorale urbana alla luce del Documento di Aparecida e del progetto missionario di Francesco» (pp. 406, euro 22), di cui pubblichiamo in questa pagina stralci della presentazione firmata da Andrea Riccardi (nella foto). Lo studio di Galli, molto documentato, presenta proposte per la pastorale urbana nelle megalopoli, le stesse che in gran parte hanno ispirato l’opera dell’allora arcivescovo di Buenos Aires: basta cioè con la demonizzazione della città come luoghi dell’assenza di Dio, ma anzi riscoperta delle periferie e delle loro contraddizioni quali ambienti da cui partire per un nuovo modello di spiritualità e di evangelizzazione.di Andrea Riccardi
Dio vive nella città? Vive ancora nella città contemporanea, quella di donne e uomini così diversi dai cristiani devoti di altre generazioni? La città contemporanea appare l’incarnazione della crescita del mondo, quella della tecnoscienza e della padronanza dell’uomo sulla vita; ma è anche la realtà dell’agglutinarsi problematico dei drammi della società. In questa città sembra non ci sia spazio per Dio, per la vita di fede, se non in qualche angolo ben riparato o in qualche spazio residuale. Questa è l’opinione corrente, con cui fare i conti. La risposta alla domanda se Dio vive nella città appare, di primo acchito, negativa. Dio avrebbe lasciato la Babele umana, quella città costruita dall’uomo per farsi grande ed esaltarsi, ma che rappresenta anche il suo dramma e l’abisso della sua debolezza. Si potrebbe dire che la città è un mondo. Grandi città contemporanee, come Istanbul, sono chiamate «città-mondo», per la complessità degli universi che contengono, unite, talvolta in modo inestricabile, tra loro, entro gli stessi confini urbani. La città è realtà antichissima nella storia umana. Ma noi parliamo di un’altra città, quella del XXI secolo, epoca della globalizzazione. Nel 2007, per la prima volta nella storia umana, la popolazione delle città ha superato quella delle campagne, a livello mondiale. Nel corso del primo decennio di questo secolo è avvenuta tale transizione decisiva, che ha segnato la fine della prevalenza delle campagne che aveva accompagnato la storia umana. Ancora negli anni Cinquanta solo il 16% della popolazione viveva nei conglomerati urbani. Oggi ben più della metà. E si può dire che l’umanità vive nelle città, anche per la forza attrattiva che esse hanno sulla gente che abita fuori di esse. Dio è uscito dalle città? Questo sarebbe accaduto, anche se oggi l’umanità abita quasi pienamente in esse. Pensare Dio, il Dio della fede cristiana, fuori dalle città esprime una coerenza di pensiero che viene da lontano. È quello dell’affermazione della modernità laica e secolare contro la Chiesa e lo spazio della fede. Così si costruisce la città come spazio del disincanto. E la secolarizzazione avanza con la modernità, secondo un assioma che soggiace a tanto pensiero pubblico del nostro secolo, quasi sul modello di Auguste Comte: dove cresce la modernità, indietreggia la religione, perché inevitabilmente le per- sone si secolarizzano, anzi l’insieme della società diventa secolare. Questa lettura non è stata solo propria del mondo laico, ma è stata anche assunta dai cristiani e dalle loro Chiese: ha informato una pastorale difensiva in talune stagioni o ha spinto alla missione evangelizzatrice in altre, mentre in alcuni momenti ha generato una lettura pessimistica del presente e tant’altro. Si tratta di una lettura preminentemente europea ed occidentale, anche se la secolarizzazione è una realtà che traversa il mondo intero. Quasi quarant’anni fa, nel 1966, il teologo battista americano, Harvey Cox, aveva scritto La città secolare, in cui sosteneva che la città, di per sé, ha una sua forza di secolarizzazione sulla vita cristiana e sulle esistenze dei cittadini. Nella moderna tecnopoli e megalopoli, Dio è morto. Bisogna parlarne in maniera tanto differente dal passato di cristianità, quasi compiendo un nuovo esodo dentro la secolarità urbana. La realtà, però, è molto più articolata. Quando si parla di città, si evoca la realtà del mondo globalizzato, che tutto pervade e che ha segnato in profondità la vita urbana e umana. Nel 2020 ben 9 città supereranno i 20 milioni di abitanti. È un salto di civiltà, che cambia in profondità i rapporti umani, la cultura, la famiglia, l’economia, la vita dei singoli, uomini e donne. Anzi la globalizzazione, pur nei grandi agglomerati urbani, polverizza e disarticola le comunità umane e allenta i legami di prossimità. Spesso la città globale perde il suo centro, si periferizza, diventa tutta periferia. In questo orizzonte urbano e globale, dalle radici antiche ma abitato da processi inediti, è giusto riproporre la domanda: Dio vive qui? Soprattutto oggi bisogna soffermarsi con maggiore attenzione sulla globalizzazione, che cambia radicalmente lo scenario della vita e della cultura. E la globalizzazione vive nelle città, che si allargano alle periferie, spesso divenendo anch’esse periferie senza centro. Ignorare la portata antropologicamente trasformatrice della globalizzazione è spesso vivere e pensare come se la storia passasse invano. Il vero problema, che accompagna il secolo delle città, questo nostro Duemila, è soprattutto la globalizzazione. Questa è la nuova dimensione urbana e sociale con cui la Chiesa, la vita cristiana e la fede in Dio debbono fare i conti. E non è un fenomeno inafferrabile, ma trova concretezza proprio nella città globale. Tanti fenomeni transnazionali, tipici della mondializzazione, come quelli finanziari ed economici, appaiono spesso inafferrabili. Ma la città globale è una realtà, anzi la nostra realtà.  Insomma Dio vive nella città, in questa città globale. Bisogna riscoprire la sua presenza, renderla eloquente con una nuova pastorale, trovare le parole e i gesti per esprimerla. La città globale è anche un mondo saturo di religiosità. Spesso nelle città esiste un lessico religioso che non è cristiano o si riferisce al cristianesimo solo in modo marginale. La città globale è anche religiosa. Ma di quale religione? A Città del Messico si resta colpiti dalla presenza di riferimenti religiosi e di culti, che si rifanno alle mafie e ai narcotrafficanti, come quello della Santa Muerte. D’altra parte l’uomo e la donna della città sono spaesati e cercano un centro in affiliazioni religiose, culti, legami. In questo rinnovato quadro di convivenza umana, frutto dell’urbanesimo e della globalizzazione, non si possono riproporre modalità e strutture di vita della Chiesa che appartengono ad altri tempi. Soprattutto la Chiesa non è chiamata a una «battaglia» ideologica contro la secolarizzazione, ma a una conversione pastorale nella nuova situazione dell’uomo e della donna contemporanei.  Il cardinale Bergoglio, nel 2011, sosteneva che «Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. La missione – continua – non si oppone a cercare di apprendere dalla città – dalle sue culture e dai suoi cambiamenti – mentre noi usciamo a predicarle il Vangelo». La Chiesa ha la missione di evangelizzare gli uomini e le donne della città, ma deve anche capirla e porsi in atteggiamento di ascolto verso le sue tante voci. Perché Dio vive nella città. Questa non è il luogo della morte di Dio. Così si può vivere il Dio nei cristiani nella città plurale e questo diventa un fatto di popolo, pur convivendo con altri percorsi religiosi e umani. Siamo lontani dal pessimismo ideologico verso la secolarizzazione, ma anche dall’idea che la secolarizzazione sia quasi una «provvidenza» che trasforma il mondo della fede verso modelli più moderni. Va presa coscienza della realtà della città, per vivere, agire, dialogare in modo conforme e realista, aperto alla speranza e al bene comune. © RIPRODUZIONE RISERVATA ARGENTINA  Sfide «La religione tra i grattacieli esiste, ma non si possono riproporre modalità e strutture di vita che appartengono ad altri tempi»
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