Viviamo in questi giorni, in Europa e specie nella nostra Italia, quella che – se altri fattori non intervengono – tra qualche decina d’anni gli storici potrebbero interpretare come una nuova 'Grande Paura'. Altre, molte altre la storia ne ha conosciute: dal dilagare dei tartari nel XIII secolo alle grandi epidemie di peste. Oggi si teme l’esplosione incontrollata di un terrorismo sedicente islamico e il ricadere del pianeta in una nuova guerra mondiale, sia pure dai connotati diversi rispetto alle altre due.
Siamo pertanto – pur ammesso che la storia insegni qualcosa; e che utile sia il suo insegnamento – in grado di meglio comprendere la situazione e i sentimenti dei romani e di tutta la penisola italica di circa 22 secoli e mezzo or sono: in quel fatidico 218 a.C. Annibale Barca, il geniale aristocratico cartaginese ammiratore di Alessandro Magno e fautore di una decisa ellenizzazione della cultura punica della sua città, da Sagunto percorse con il suo esercito composito (soprattutto di africani, d’iberici e di galli) tutto l’arco semicostiero mediterraneo settentrionale fino alle Alpi, le varcò e inflisse ai romani una serie terrificante di sconfitte, dalla Trebbia al Trasimeno sino alla fatidica giornata di Canne, quel famoso 2 agosto.
Annibale ha avuto sin dai suoi contemporanei una grande fortuna storica, ma ha suscitato contrastanti, opposte interpretazioni. Nella nostra tradizione scolastica, dura a morire perché periodicamente rinnovata da impulsi eruditi o patriottici, egli resta «Annibal diro» come lo definì Giosuè Carducci nel componimento Alle fonti del Clitumno nel quale esaltava, con imperturbabile anacronismo ma con discutibile rispetto della storia che pur ben conosceva, il corale afflato degli italici tesi alla difesa di Roma in pericolo. Annibale era, per il poeta versiliese, l’icona dello straniero empio e feroce: figura simbolica di più recenti nemici della patria italiana.
Ma noi sappiamo in realtà che il condottiero punico conosceva gli umori degli abitanti della Penisola, dalla Gallia Cisalpina all’Etruria alla magna Grecia, abbastanza bene da sapere perfettamente quanto poco sicuri fossero i loro sentimenti nei confronti di Roma: e, se all’indomani di Canne egli non procedette all’assalto o all’assedio dell’Urbe – un 'errore' che sovente gli fu rinfacciato, sia dai suoi immediati collaboratori sia da più recenti più o meno informati critici, non ultimo il maresciallo Bernard L. Montgomery –, ciò dipese anche dal fatto che si aspettava la sua caduta come un frutto maturo, in seguito alle conseguenze delle cocenti e devastanti sconfitte miliari a catena e della rivolta degli italici.
Sarebbe stato del tutto logico: ma, come spesso accade nella storia, non avvenne. Il governo della repubblica, che aveva sbagliato tutto nel favorire comandanti troppo precipitosi nel voler combattere e troppo fiduciosi nella loro superiorità numerica e che per questo aveva frainteso la tattica di Fabio Massimo cunctator, stavolta ebbe ragione chiudendosi nel suo 'irragionevole' rifiuto di trattare con quell’empio generale barbaro cieco da un occhio.
La perfidia annibalica fu battuta dalla fides, perché tutto sommato, nella sostanza, l’anacronistica visione del Carducci era più veritiera del cinico realismo del cartaginese e di quello che gli raccontavano le sue spie. La federazione italica stretta attorno a Roma finì col reggere. La manovra di avvolgimento faceva trionfare Annibale sul campo di battaglia e lo avrebbe consegnato per sempre all’ammirazione di tutti i grandi capi militari, dal Montecuccoli a Napoleone a Guderian: ma trasferita dall’universo tattico a quello geopolitico e geodiplomatico fallì.
Canne fu una delle battaglie più terribili e più famose della storia del genere umano: coinvolse quasi ottantamila combattenti sul fronte romano, poco più di cinquantamila su quello annibalico che pure stravinse riportando pochissime perdite. La battaglia è perfettamente descritta nel libro di Giovanni Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma (Il Mulino, pp. 198, euro 15), uno storico dell’età antica specialista nella storia della guerra e delle istituzioni militari che ha tutte le qualità degli specialisti del suo ramo ma che non condivide alcuno dei loro frequenti vizi.
In effetti, leggendo il libro, si resta ammirati dall’analitica conoscenza e dalla lucida descrizione sia delle istituzioni, delle strutture e delle attrezzature militari, sia del teatro di guerra che l’autore ci fornisce. Brizzi illustra con impressionante sicurezza gli itinerari, i centri demici, i passi montani, le aree paludose e boscose che la composita armata annibalica dovette affrontare; esamina una per una le genti incontrate e la loro posizione rispetto a Roma, ricostruisce le differenti battaglie, non tralascia mai d’informarci sulle posizioni degli antichi scrittori e dei critici moderni a proposito di quanto va esponendo. Ma la sua è storia militare solo nella misura in cui essa è parte fondamentale e irrinunziabile della storia sociale e civile. Gli errori degli alti comandi dell’esercito romano, le contraddizioni derivanti dal difficile convivere di libertà repubblicane e disciplina militare, il rapporto tra l’infuriare della guerra e l’aggravarsi delle difficoltà sociali: tutto è esaminato eminentemente sotto il profilo della storia sociale e del riflesso di essa nella società e nella cultura non solo di quel tempo, ma anche dei secoli a venire.
E bisogna dire che le pagine più belle sono quelle nel quale Brizzi descrive la figura e l’indole del 'suo' Annibale: perché non c’è dubbio alcuno ch’egli lo ami e lo ammiri al di là di ogni questione di 'obiettività' storica. E ne esamina con finezza e con coraggio anche gli aspetti più intimi: soprattutto quello, discusso, della sua perfidia che – al di là d’interpretazioni grossolanamente machiavellistiche – riferisce con precisione alla metis (audacia, prudente spregiudicatezza, senso del limite, coraggio nell’affrontarlo, fiducia nel proprio destino, conoscenza del mondo e degli uomini); e quindi quello della sua troppo spesso chiamata in causa 'empietà', che tale poteva sembrare ai romani ma che invece in lui si esprimeva in termini di costante disciplina rituale.
Da tutto ciò emerge l’inatteso, travolgente e sconvolgente finale in chiave mitica. Non che Canne abbia preparato Zama, nel senso che sia servita ai romani come lezione imponendole la paura di Cartagine e inducendola a quella nuova guerra punica che fu tanto preventiva quanto radicale e spietata. Questa è la conclusione sul piano storico e strategico: ed è condivisibile.
Ma la straordinarietà di questo libro emerge dall’epilogo: che propone la hybris annibalica come centro e fulcro di un itinerario metafisico e metastorico addirittura segnato da misteriosi e crudeli riti magici, su una linea fatale che rivisita l’inimicizia tra Cartagine e Roma attraverso il suicidio di Didone narrato da Virgilio in versi che rievocano un vero e proprio carmen, una formula di magia nera.
La bella regina vittima del suo amore per Enea condivide il triste privilegio – antropologicamente ben noto – dei suicidi in seguito a colpe altrui: può evocare un vendicatore arcano che colpirà i discendenti di chi l’ha fatta morire. Annibale è quella «Furia della vendetta animata oltre il tempo dal sangue di una magia remota». La sua ombra immensa si stende sulla storia dell’Urbe: solo la distruzione e la scomparsa di Cartagine la libererà dal sortilegio di Didone. Il mito vince sulla storia solo se lo ignoriamo. Ma l’empio cartaginese guercio issato sul suo elefante indiano dominerà i secoli per sempre.