Qualcosa di essenziale attraversa le pagine di questo libro che raccoglie testi di Martin Buber (
Israele e i popoli. Per una teologia politica ebraica, Morcelliana, pagine 288, euro 25,00), anche di tragico. Le circostanze: il grande pensatore è chiamato a partecipare a Kassel, venerdì 6 gennaio 1933, a una convegno dal titolo: “I fondamenti spirituali e religiosi di un movimento
völkisch”. L’ambito è quello del Köngener Bund, accolita di intellettuali che stanno transitando verso un conclamato nazismo. Non tutti. C’è anche Marianne Weber, la moglie del grande sociologo Max. Il movimento “völkisch” è prodromico al nazismo, ma raccoglie anche attenzioni da parte di pezzi di teologia protestante, meno di quella cattolica, movimenti giovanili di destra e molto paganesimo. Anzi, la prevalenza dell’aspetto pagano dei movimenti che sorreggono il nazismo è chiarissima. Cosa ci fa il grande pensatore ebreo assieme a questa compagnia imbarazzante? Discute. Soprattutto con Wilhelm Hauer (1881-1962), personaggio di snodo nelle vicende culturali del Reich: professore ordinario di Indologia a Tübingen, conoscitore dell’induismo nel quale individuava le radici spirituali del germanismo. Sotto il suo influsso il movimento, che aveva radici nei gruppi giovanili Wandervogel, diventa fautore di una religione
völkisch e si dota di un organo di stampa dal titolo: “Kommende Gemeinde” (La comunità che viene). Non pensiamo però che si tratti solo di bizzarri cantori di
jodel in calzoncini di cuoio, tutt’altro. Da Köngen passarono, per citarne pochi: lo scrittore Hermann Hesse, Karl Otto Paetel ed Ernst Niekisch, nazionalboscevichi. Nel 1933 il percorso di Hauer sta concludendosi direttamente nelle braccia di Heinrich Himmler e Reinhard Heydrich, che gli conferiranno la tessera delle SS il 15 agosto del 1934. Ma di cosa discute Buber? Della teologia-politica che dovrebbe sorreggere l’azione di ogni popolo che si rispetti, salvaguardandone il ruolo storicoepocale, la missione e la dimensione identitaria. Sullo sfondo la natura del sionismo, il suo significato, che supera l’interesse dei tedeschi a risolvere la questione ebraica (sollevata dai tempi dello stesso Karl Marx) per diventare il luogo nel quale il popolo ebraico stesso è chiamato a rispondere alla sua situazione storica. La drammaticità di questa conferenza? Manca solo qualche giorno alla presa del potere di Adolf Hitler, dove tutto precipita. Quella di Buber rimarrà la testimonianza, per certi versi imbarazzante e quasi mai compresa in tutta la sua valenza, non certo del tentativo improbabile di
appeasement con il nazismo antisemita, quanto di un mondo di equivoci e dilemmi, qualche volta misteri. Sono questi, paradossalmente, a gettare una luce importante su quei convulsi anni che troppo spesso si tende a far passare come anni di follia collettiva (che ci fu), ma le cui premesse sono originate da questioni che hanno attraversato, come mai nella storia occidentale, il nesso tra politicareligione- etnia e le forme della modernità tecnico- economica. In quei dibattiti, passano in rassegna tutte le sfumature possibili e immaginabili, tutte le più improbabili declinazioni di idee, dottrine, storie e drammatiche scempiaggini. Il testo della conferenza di Buber a Kassel è presentato per la prima volta al mondo, con un apparato critico ricchissimo, curato con certosina attenzione e scrupolo filologico da Stefano Franchini. Il volume accoglie anche altri interventi (come il dibattito con il teologo Karl Ludwig Schmidt), sempre sul ciglio dell’abisso, di quegli anni che documentano lo scontro durissimo tra figure della teologia cattolica e protestante (non tutta) e il neopaganesimo germanico proposto da studiosi e intellettuali che nel Reich millenario di Hitler vedevano profilarsi la sagoma di un mondo liberato dalla rivelazione del Dio unico, sostituito dal sangue, dalla terra e dal prevalere della razza indogermanica. Buber tiene il punto sulla questione dell’unicità del patto tra Dio e popolo di Israele, ne rivendica la legittimità e nel discutere gli obblighi che ne derivano agli ebrei crede di poter convincere i
völkisch a non considerarlo un patto il cui assolutismo mette in questione il loro. La discussione, ovviamente, s’infrange rantolando contro il muro degli eventi che incalzano e alla sorda violenza di chi aveva già deciso per lo sterminio.