Ci sono molti rispecchiamenti del Superuomo di Nietzsche nell’attuale cultura (o culto) del cyborg che si protende, in varie forme e con diversi nomi, come corda tesa verso una condizione di sovrapotenza e di ultradotazione. Chi si fosse fermato a Kevin Warwick, primo storico cyborg in virtù del suo
chip impiantato nell’avambraccio nel 1998, si è perso un variegato campionario di
body hacking, l’arte di trattare il corpo come un sistema informatico, divertendosi a violarlo, manipolarlo, “anagrammarlo”. I nuovi eroi del cyborgismo sono assai più audaci e le loro protesi molto meno riservate. Tale è l’Eye-
borg di Neil Harbisson, una sorta di antenna pieghevole osseointegrata nella nuca che accarezza la calotta cranica e termina all’altezza della fronte. Tramite essa, il trentenne artista anglospagnolo è in grado di “tradurre” i colori in vibrazioni, quindi “udire” le peculiarità dello spettro cromatico (bianco è il silenzio), aggiungendovi – unico tra i mortali – anche il suono degli ultravioletti e degli infrarossi. Dopo essere riuscito a dichiarare l’Eye-
borg tra i suoi “segni particolari” nel passaporto (anche se la foto sarebbe stata sufficiente), egli può fregiarsi del titolo di primo cyborg ufficialmente riconosciuto dal Governo del Regno Unito. Anche il docente di Ingegneria informatica Steven Mann ha un dispositivo incastonato nel cranio, ma la sua videocamera assomiglia molto ad un normale paio di occhiali, anche se non è proprio uguale. Così non è apparsa all’addetto di un McDonald di Parigi che tre anni fa, in nome della privacy, dopo inutili inviti, ha forzato per toglierla, diventando inintenzionalmente il primo caso di discriminazione nei confronti di un cyborg. Lo statunitense Rich Lee ha invece individuato nel trago una grossa opportunità di potenziamento. E così quella piccola sporgenza cartilaginea dell’orecchio che Madre Natura ha posto come protezione del condotto uditivo diventa, per il Padre Tecnologico, la sede atta a incorporare il terminale di un impianto audio la cui fonte può essere riposta ad un buon raggio di distanza. È previsto un picco di vendite per gli agenti di spionaggio e per gli afflitti dalle troppe riunioni e gli scolari, che potranno almeno stendere un tappetto musicale sotto il battere delle molte parole. La palma del più convinto testimonial di questo superomismo bionico sembra tuttavia spettare a Timothy Cannon, fondatore della
Grindhouse Wetware, capace di innestarsi nell’avambraccio anteriore un dispositivo della dimensione di un portasigarette che rileva i dati biometrici del suo corpo: temperatura, battito cardiaco, pressione sanguigna. Dice che tutti dovrebbero avere il diritto di sapere cosa accade al loro povero cuore quando la ragazza dei sogni pronuncia parole determinanti, nel bene o nel male, sul destino della loro storia d’amore. Alle spalle di simili portavessilli, prendono corpo squadre di ragazzotti, americani perlopiù, che si fanno chiamare
grinders e hanno come rito d’iniziazione l’inserimento sottocutaneo di un magnete di qualche millimetro nel polpastrello del dito indice, con cui poter calamitare anellini o spille da balia e percepire la presenza di campi magnetici: dal forno a microonde ad una metropolitana sotto il suolo ove camminano. I più teorici tra loro alzano il tono e parlano perfino di una “filosofia grinder” al cui cuore sta l’idea che il fine dell’essere umano consiste nell’eliminare le insopportabili limitazioni biologiche, o quantomeno aggirarle creativamente. L’attesa è già spasmodica, nell’ambiente, per la pubblicizzata Body Hacking Convention di Austin del febbraio 2016. Attenti osservatori del fenomeno, come per esempio Celia Lury, segnalano l’affermarsi di una vera e propria “cultura protesica”, dove il concetto di “protesi” non abbraccia il senso medico di ripristino di una funzionalità perduta, ma quello ideologico di strumento di liberazione dalle costrizioni morfologiche. Libertà – o anarchia – morfologica è, infatti, una delle espressioni più ricorrenti in questa cultura, insieme a “meta(l)morfosi” e “individualismo sperimentale”. Ancora Lury ravvisa una delle concause della tendenza nella “letteralizzazione del photoshop” (il programma che permette di ritoccare/modificare le fotografie), mentre M. Smith e J. Morra ipotizzano l’affiorare di una nuova pulsione, appunto
L’impulso protesico (Mit Press 2006). E proprio per approfondire la genesi, le caratteristiche e, soprattutto, i rischi psicologici di tale impulso è stata recentemente fondata dall’Università di Dublino una nuova disciplina, la Psico-protesica, ovvero – come spiega il libro omonimo (Springer 2008) – «lo studio degli aspetti psicologici dell’uso protesico... punto critico dell’interfaccia uomotecnologia, che può offrire prospettive ed esplorazioni immaginifiche nelle questioni filosofiche più profonde». In effetti, lo stesso Tim Cannon – sopramenzionato per la scatoletta biometrica nell’avambraccio – non teme di confessare le personali ricadute psicologiche sgradevoli, con quotidiani attacchi di panico nel periodo immediatamente successivo all’operazione. Nel 2013 è uscito
Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg (Ets) dello psichiatra e psicoanalista Augusto Iossa Fasano, specializzato nelle neosindromi da cyborg. Partendo dall’affermazione del
Disagio della civiltà in cui Freud prevedeva l’insorgere di organi accessori che avrebbero fatto dell’essere umano un “Dio protesico” magnificente, ma infelice, Iossa Fasano avverte che «il device endocorporeo è alla base di mutazioni ancora tutte da riconoscere, studiare e ri-mediare». Nel quadro nosologico dei “sintomi del cyborg”, l’autore elenca: depressione, ansia, somatizzazioni, corredi post-isterici, depersonalizzazione, spinte dissipative, ossessioni di soppressione dell’altro sofferente. E conclude: «Piuttosto che e prima di parlare di psicopatologia, il cyborg sconta un incredibile difetto di pensiero, sia come rappresentazione di sé tra
self e
not self, che come assegnazione e riconoscimento dell’identità da parte dell’altro ». Uno strano ed elastico destino interessa il cyborg, eroe della cultura protesica: desidera “protendersi”, come corda tesa, verso il Superuomo di Nietzsche; rischia di “distendersi”, come paziente comune, nel lettino di Freud.