Una frase che sento spesso è sul fatto che il mio non sarebbe altro che giornalismo. Non è affatto così. Io raccolgo i materiali come una giornalista, ma poi ci lavoro come una scrittrice. Com’è nato questo genere, come l’ho scelto per me? Nella cultura russa ci sono stati dei tentativi di seguire questo genere, in varie forme già esiste, ma per me è diventato l’unico. Può darsi che sia legato alla mia infanzia. Sono cresciuta in campagna, i miei genitori erano maestri di paese, era la campagna del dopoguerra. C’erano soprattutto donne, perché gli uomini erano andati coi partigiani ed erano morti in guerra. Le donne la sera si raccoglievano e chiacchieravano. Fin da piccola mi hanno molto impressionata questi racconti. Erano infinitamente più interessanti e più forti dei romanzi di guerra che si scrivevano allora, perché quelli parlavano solo dell’eroismo dei soldati sovietici, di vittoria. Nessuno sapeva la verità sulla vittoria, e cioè che ha un bel volto ma anche un volto terribile. Quando mi sono iscritta alla facoltà di giornalismo e lavoravo in un quotidiano, volevo raccontare quello che avevo sentito, trasmettere la sensazione del mondo in cui vivevo, trasmetterne l’immagine. E sempre, quando cercavo di fare qualcosa, mi tornavano in mente quelle donne. Perché da noi raccontare il dolore è arte. Da noi è molto forte la riflessione orale, non scritta ma orale; è questa che la gente ha portato via con sé. Se io non avessi registrato le voci dei miei personaggi le avremmo perse, sarebbero scomparse nel nulla assieme a loro. E mi è venuto da pensare che la vita oggi è talmente rapida, i fatti si avvicendano e cambiano continuamente, pensate soltanto agli ultimi tre anni cosa non è successo: la metamorfosi di Putin (o meglio, si è tolto la maschera), l’Isis, i profughi. Gli avvenimenti si accavallano al tal punto che la mente singola non può abbracciare tutto questo e ospitarlo nel cuore. Neppure la cultura ha tempo di riflettere su tutto questo, come faceva Lev Tolstoj che scriveva sui fatti a distanza di 50 anni; ora quel tempo non l’abbiamo più, queste cose bisogna dirle adesso, in un breve spazio di tempo. Ricordando le cose che ho sentito, ho pensato che in ogni persona c’è un pezzetto di storia, una pagina, mezza pagina di storia, si può tentare di fare un romanzo di voci, cioè raccogliere questi pezzetti, pezzetti penetranti fatti di deduzioni e testimonianze umane, e farne un libro. Io ci ho provato. E quando mi sono messa a scrivere della guerra, ho visto che c’erano molte memorie di donne, ma seguivano il canone maschile, lì la donna cercava di atteggiarsi a uomo. Mentre io avvicinavo queste donne e cercavo di parlare con loro non come con personaggi storici, ma con donne che si erano trovate in quell’inferno, con donne che non erano inchiodate alla cultura maschile della guerra. Perché la cultura della guerra resta comunque una cultura maschile, la donna ne è esente. Per questo, quello che le donne dicevano era più forte, era tutt’altra cosa, e combaciava perfettamente con l’attuale percezione della vita che abbiamo. Infatti l’uomo di oggi non è disposto ad andare a morire con tanta facilità. Per una donna la guerra resta sempre un omicidio. Per questo, di libro in libro, ho cercato di ampliare i limiti del genere ma conservando il fondamento: registro le voci di 300500 persone e poi da questo materiale traggo il libro. Mi sembra che sia un tentativo di capire il tempo, di salvare qualcosa dal caos in cui viviamo, dalla banalità in cui viviamo. (...) Tutti e cinque premi Nobel russi, tranne uno, Solochov, sono stati calunniati e ingiuriati sanguinosamente, in patria. Solzenicyn è stato mandato all’estero, Brodskij pure, Pasternak costretto a rinunciare al premio. Siamo nella tradizione della cultura russa. E molte cose vi sono collegate, i momenti politici e, naturalmente la società. Il mio libro
Tempo di seconda mano racconta propria chi e cosa è rimasto dopo il socialismo. Dopo il socialismo è rimasto un uomo corrotto perché, appunto, il lager corrompe sia il carnefice che la vittima. È rimasta un’intelligencija corrotta, che non sa neppure lei dov’è il bene e dov’è il male. Non starò a dire lo stesso del popolo semplice, che viene continuamente manipolato ideologicamente ora contro l’Ucraina, ora contro l’America. Un giornalista scandinavo mi ha detto: «Non immaginavo che si fosse caduti così in basso, che la gente potesse credere a queste cose, che prestasse ascolto». Mentre lavoravo su
Tempo di seconda mano l’ho capito anch’io; non credevo che ci fosse ancora così tanto Stalin fra noi. E invece è il più vivo dei vivi, è effettivamente vivo, è effettivamente un punto di riferimento. E oggi, per fare un esempio, a Perm, là dov’era rimasto l’unico museo delle vittime delle repressioni, hanno fatto il Museo dei boia. Ossia non il museo di chi lì ci è morto e ha sofferto, ma di quelli che facevano la guardia. Nelle loro memorie scrivono com’era dura, e che delinquenti erano questi detenuti politici. Ho detto una volta che ci troviamo di fronte a un Putin collettivo. Cioè un pezzetto di Putin sta in ogni russo, nella maggioranza, nell’86%. Insomma capisco cosa sono i 'tempi bui' di cui parlava Hannah Arendt, li hanno vissuti i giapponesi, i tedeschi, gli americani, e queste nazioni hanno sofferto parecchio per venirne fuori. Oggi sta accadendo alla Russia. Naturalmente, ai tempi della perestrojka questo non ce lo potevamo immaginare. Per fare un esempio, a Vladivostok hanno eretto un monumento a Solzenicyn, e non passa notte che non ci scrivano 'Giuda' con la vernice. L’opinione del popolo è che Gorbaciov andrebbe processato. E che Solzenicyn sia un traditore. È un paese completamente diverso. Com’è potuto accadere in così breve tempo? Io stessa, che per trent’anni ho studiato la storia dell’«uomo rosso», che ne ho scritto, faccio fatica a rispondere come e perché è potuto succedere. Certo il popolo è stato ingannato, spogliato, è rimasto con niente, hanno diviso il paese, la torta l’hanno portata in Svizzera, in Inghilterra, sono rimasti i poveri. E questi si salvano solo grazie al fatto che credono nella propria grandezza. (...) Ho vissuto dieci anni all’estero, in Italia, in Francia. Sono stata anche in Svezia. Sa, oserei dire che sia stato un bene per me essermene andata, ad un certo punto. Lo scrittore deve vedere il mondo a colori, la varietà umana. L’uomo è un essere molto complesso, in lui non c’è il male chimicamente puro, il male è sparso, disseminato nella vita. Quando me ne sono andata mi si sono allargate le pupille, ho visto il mondo, e ho visto che il mondo oltre i nostri confini è molto complesso. Ho capito persino cos’è la democrazia, e mi sono liberata del romanticismo e delle illusioni degli anni ’90, che avremmo potuto importare la democrazia come il cioccolato svizzero. Si è visto che ci aspetta un lungo lavoro, ci vorranno anni e anni. Insomma grazie alla mia permanenza in Europa, mi sembra di essere cresciuta come scrittore. Perché sono tornata? Perché ho capito che Putin e Lukascenko resteranno a lungo. I miei genitori sono morti senza di me, la mia nipotina cresce senza di me, e io sto perdendo il senso, importantissimo per i miei libri, del legame con la gente della mia terra. Perché la Russia e la Bielorussia sono così: manchi due mesi, e quando arrivi ci sono già delle parole nuove, dei sentimenti nuovi, nuove sensazioni della gente. Il genere che ho scelto richiede onestà, bisogna vivere in mezzo a questa gente. Non si possono cogliere queste cose attraverso il computer, non le tiri fuori da te stesso. Direi, nel complesso, che il mondo è diventato più multicolore, vivido e anche più incomprensibile, certo.