Le attese di chi si aspettava un pronunciamento 'aperturista' sono andate deluse: ieri, la Corte Costituzionale non ha sdoganato la «
stepchild adoption ». Al contrario, ha dichiarato inammissibile il ricorso volto a ottenerla. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata nel novembre 2014 dal Tribunale minori di Bologna, chiamato a pronunciarsi sulla possibilità o meno che una sentenza di adozione piena con responsabilità genitoriale pronunciata negli Stati Uniti – a favore di una donna sposata secondo la legge del luogo con la madre biologica di una bimba nata nel 2003 con inseminazione artificiale – potesse essere riconosciuta dal nostro ordinamento. Tra le ragioni portate in giudizio, il fatto che anche l’altra componente della coppia avesse partorito un bimbo. E che la figlia della ricorrente avesse dichiarato di voler rimanere con le due donne e l’altro bimbo. Il pubblico ministero si era però opposto, osservando che le nostre leggi consentono l’adozione solo in presenza di un matrimonio riconosciuto: requisito non presente in quel caso, poiché riferito a due persone dello stesso sesso. A quel punto, il tribunale non aveva più argomentazioni per replicare all’osservazione. E chiamava in causa la Corte Costituzionale. Al 'giudice delle leggi' i magistrati minorili chiedevano che venissero dichiarati incostituzionali gli articoli 35 e 36 della legge 184/1983, nella parte in cui prevedono che a una coppia omogenitoriale sia totalmente preclusa l’adozione. Al contrario, i magistrati bolognesi ritenevano opportuno che la Corte, per questi casi, desse ai giudici la possibilità di valutare discrezionalmente le singole situazioni. E di decidere conseguentemente. A difesa della legge così com’è, la presidenza del Consiglio dei ministri si costituiva in giudizio tramite l’Avvocatura dello Stato. Ma attenzione: non per sostenere l’inadottabilità, nell’ambito di coppie gay, ma per evidenziare l’inutilità di una pronuncia della Corte su quella legge, dato che più giudici avevano già concesso adozioni omogenitoriali invocando l’articolo 44 della stessa norma (che regola la sorte dei minori nei cosiddetti 'casi particolari'). Il verdetto dunque è arrivato ieri mattina, al termine della camera di consiglio: ricorso inammissibile, poiché «il Tribunale di Bologna – si legge in un comunicato della Corte – ha erroneamente trattato la decisione straniera come un’ipotesi di adozione da parte dei cittadini italiani di un minore straniero (cosiddetta adozione internazionale), mentre si trattava del riconoscimento di una sentenza straniera, pronunciata tra stranieri». Nella sostanza, dunque, la Consulta non ha condiviso la ricostruzione giuridica operata dalla magistratura minorile. E, per questo, nemmeno si è pronunciata sulla costituzionalità o meno delle norme sottoposte alla sua attenzione. La causa ritorna dunque a Bologna. Ma con una certezza: quand’anche il Tribunale dovesse riconoscere la sentenza d’adozione pronunciata all’estero, il valore giuridico del provvedimento resterebbe confinato al singolo caso. Avrebbe potuto invece elevarsi a regola generale qualora il ricorso fosse stato accolto dalla Consulta. Un’altra osservazione. Pur non essendoci ancora la sentenza romana (se ne conosce il solo dispositivo, mentre il testo integrale sarà pubblicato nelle prossime settimane), il comunicato della Corte Costituzionale lascia intendere che la sua decisione non è stata orientata dalle argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato. Il particolare è importante: la loro recezione avrebbe potuto strizzare l’occhio a quelle sentenze creative che, anche nei mesi scorsi, hanno concesso adozioni gay attraverso evidenti forzature delle nostre leggi.