martedì 26 marzo 2013
Emma Nowotny (Ecr): accolto solo il 5% delle richieste italiane. L’accusa: «Da voi prevalgono criteri "non scientifici" per la selezione dei cervelli. E i migliori sono costretti ad emigrare».
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La ricerca e le università in Italia devono essere urgentemente modernizzate all’insegna della concorrenza e della qualità, ponendo fine a nepotismi e raccomandazioni, e servono più investimenti pubblici. Altrimenti, la competitività italiana è a rischio. Non ha peli sulla lingua Helga Nowotny, professore di Scienze sociali al Politecnico di Zurigo e presidente del Consiglio Europeo di Ricerca (Erc), l’istituzione Ue preposta al finanziamento di ricercatori e dei loro team dei Ventisette (più Israele, Svizzera, Islanda, Norvegia, Croazia e Turchia). «Vede – spiega – il problema è da un lato che l’università e la ricerca è sotto-finanziata, ma dall’altro che l’Italia ha realizzato solo in parte la modernizzazione necessaria per rendere competitive le università. Il Paese conta debolezze nel sistema che riguardano anche la selezione interna: la ricerca deve essere basata esclusivamente su criteri scientifici, e invece in Italia troppo spesso subentrano "altri" criteri. Questo – osserva ancora – ha un impatto negativo sulla qualità della ricerca. È un pericolo, perché in gioco è la competitività del Paese e della sua economia». Sento dire che il tasso di successo delle domande inoltrate a voi dell’Erc da ricercatori italiano sia molto basso...Purtroppo è così. Siamo letteralmente inondati da domande di finanziamento da parte di ricercatori italiani in ogni settore. Ebbene, dal 2007 a oggi solo il 5% ha avuto successo contro una media Ue dell’11% (per la Svizzera è del 23%, per la Francia è  del 16%, per il Regno Unito del 14% e per la Germania del 13%, ndr).Perché questo?I Paesi con i più elevati tassi di successo, come Svizzera o Francia, sono quelli in cui è molto sviluppata la cultura della competitività, con la voglia o la consapevolezza dei ricercatori di appartenere alla "serie A". Questo viene accompagnato da una grande capacità di auto-valutarsi, di rendersi conto di che cosa voglia dire alta qualità da "serie A" e quale non lo sia. In Italia invece si toccano con mano gli effetti del fatto della selezione non fondata solo su criteri scientifici. Un disastro generale?Un momento: ci sono tanti eccellenti ricercatori italiani. Un potenziale enorme per il Paese. Solo che, purtroppo, un terzo dei nostri finanziamenti sono andati a italiani operanti all’estero, un record. Questo perché molti in Italia non ricevono il sostegno necessario. Recentemente un ricercatore italiano, che ha ottenuto da noi dell’Ecr un finanziamento da due milioni di euro, mi ha raccontato di aver scritto al rettore della sua università in Italia per discutere di un miglioramento della sua situazione, grazie ai fondi ottenuti dall’Ue. Per sei settimane ha atteso invano una risposta, poi ha ricevuto un’offerta dalla Gran Bretagna, e se n’è andato. E purtroppo non è caso singolo. Insomma quella della scarsità dei fondi è solo una scusa per i problemi della ricerca italiana?Oggettivamente l’Italia investe troppo poco nella ricerca e nell’Università, poco più dell’1% del pil, che è la soglia sotto la quale non c’è chance per il settore. Che cosa dovrebbe fare l’Italia?Anzitutto, dovrebbe investire di più nella ricerca, se ci avvicinassimo al 2% del pil sarebbe già molto. Inoltre si tratta di rivedere l’intero sistema, migliorando drasticamente i metodi di selezione e chiamata e puntando sulla massima qualità. Le faccio l’esempio della Germania, con la cosiddetta "Iniziativa eccellenza". I tedeschi hanno avuto il coraggio di dire: alcune università avranno più fondi perché riteniamo che sono le migliori ed è là che dobbiamo concentrare le risorse disponibili. E così gli atenei si trovano a dover competere per rientrare nella rosa dei migliori. Funziona. Perché vede, non è più possibile finanziare una galassia di università sparse ovunque, magari per orgoglio politico o di campanile.
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