Il puntatore rosso indica la posizione di Tal Abbas, nel nord LibanoIl campo di Tal Abbas non è propriamente una reggia. In quelle baracche di legno con il tetto ondulato (dono un po’ peloso quello dell’Onu: solo il tetto) hanno trascorso una ventina di mesi, con un voucher mensile di 20 dollari pro capite elargito dall’Acnur spendibile solo nel supermercato e solo per generi alimentari e scarsissime prospettive di guadagno, se non quello di sgobbare nelle serre che si allungano come bruchi giganteschi lungo la costa che da Tripoli del Libano porta alla Siria con il più spietato e arcaico dei contratti: lavoro in cambio di cibo, nient’altro.
Vedute del campo profughiIl cognato di Abu non ce la fa. Sogna la fuga, sogna che le sue mani di carpentiere possano agguantare l’Europa come hanno fatto decine di migliaia di siriani, di iracheni, di eritrei. Ma c’è di mezzo il mare, il vasto mare dalle cui sponde meridionali l’Europa è poco meno che un miraggio lontano. Il cognato sparisce, lascia il campo. Farà sapere tempo dopo che è pronto per partire, ma i suoi sono messaggi confusi, forse dettati dai suoi stessi carcerieri. «Non lo so come ha fatto – dice Abu Rabiah – non so come abbia raggiunto i mercanti di vite umane, so solo che è annegato, lasciando una vedova e dei figli ». Uno dei molti, dei troppi che sono finiti in fondo al mare.
La speranza ha gli occhi dei più piccoliPer Abu Rabiah invece, per i suoi, per la sessantina di ospiti di Tal Abbas (una ventina sono cristiani caldei o siriaci, il resto musulmani) e per un piccolo gruppo di famiglie disperso fra Tripoli e Beirut il destino ha offerto una scorciatoia completamente diversa. Per l’esattezza un corridoio, un corridoio umanitario che per prima ha sperimentato la piccola Falak, profuga di Homs affetta da una grave forma tumorale al nervo ottico, trasferita con la famiglia la scorsa settimana a Roma e subito operata con successo grazie a un protocollo di collaborazione tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), la Tavola valdese e la Comunità di Sant’Egidio con il concorso dei ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri. Un protocollo che ora si estende a novantatré rifugiati (24 famiglie con 41 minori) che lunedì verranno imbarcati su un volo Alitalia e accolti nel nostro Paese dove già è stata predisposta per tutti una destinazione che cercherà di conservare intatti i loro legami d’origine. «Nel kit di accoglienza quando sbarcheranno a Roma – spiega un operatore umanitario – oltre alla prima colazione, troveranno anche una copia della Costituzione italiana in arabo. Da quel momento avranno tutta l’assistenza di cui avranno bisogno: dall’inserimento nella nostra società ai corsi di lingua, dall’accompagnamento nelle procedure di richiesta asilo al percorso di educazione al lavoro che sarà portato avanti in partenariato con la Fondazione Adecco».
Numerose le giovani donne tra i profughi di Tal AbbasUna goccia nel mare, si dirà: novantatré rifugiati messi in regola senza ricatti, senza tagliole, senza la brutalità e l’umiliazione dei trafficanti. Un progetto, quello del corridoio umanitario, che prevede l’arrivo di un migliaio di casi in due anni non solo dal Libano, ma presto anche dal Marocco e dall’Etiopia. Farà scuola? Difficile dirlo.«In un momento di immobilismo dell’azione politica dell’Unione europea sul tema esplosivo ed urgente delle migrazioni globali – spiegano i responsabili – la proposta di corridoi umanitari consente l’arrivo in Italia, e conseguentemente di tutti i Paesi dell’area Schengen che vorranno partecipare, di specifiche situazioni individuali che per la loro vulnerabilità sarebbero facili vittime del traffico di esseri umani, ad esempio, donne sole con bambini, vittime di tratta, anziani, persone affette da disabilità o serie patologie, persone cioè perfettamente identificate e quindi nel massimo rispetto delle norme di sicurezza. La polemica sugli irregolari così facendo perde di fatto ogni consistenza». Cosa farai in Italia, Abu Rabiah? «L’imbianchino, forse, o l’autista. Un lavoro, comunque. Per me, per la mia famiglia». Sventolano le piccole mani dei ragazzini di Tal Abbas mentre il sole disegna le lunghe ombre della sera nel campo che presto abbandoneranno per sempre. «Ciao ciao, come stai?», dicono. «Buon giorno, signore!» Sono i primi suoni di una lingua che impareranno presto. Ridono. E nel guizzo degli occhi la certezza insondabile di una sorte migliore appena dietro l’angolo.