Il dato va guardato in controluce. Per capire la storia che c’è dietro quelle morti tra le sbarre. Solo così, infatti, il numero dei suicidi in carcere potrà continuare a scendere. È vero, va detto, 39 detenuti che si tolgono la vita non sono un dettaglio insignificante, ma questo «è il dato più basso dal 1992». La buona notizia, diffusa ieri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), porta con sé anche le prime festività natalizie – un periodo di solito di «grande fragilità emotiva» che fa aumentare i suicidi – in cui «non si sono verificati casi». Uno dei motivi è appunto il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri (i detenuti sono passati da 68mila a 52mila), come anche – ricorda ancora il Dap – «l’implementazione di progetti di reinserimento sociale e lavorativo», più di 12mila lo scorso anno. Peccato che tutto ciò sia a macchia di leopardo. Numeri più contenuti, ovviamente, «portano ad una migliore vivibilità», commenta don Virgilio Balducchi, capo dell’Ispettorato generale dei cappellani nelle carceri italiane, ma ancor di più «sarebbe importante paragonare il numero dei suicidi ai tentati suicidi, comprendendo quindi anche il lavoro degli agenti che li hanno sventati». Quella cifra va letta in filigrana però, «analizzando il vissuto dei detenuti, quando e perché hanno scelto di togliersi la vita »; così si può agire per far calare ancora i suicidi, «certamente già positivo», «con azioni mirate ». Sta di fatto che passare meno tempo tra le sbarre, o attraverso le misure alternative e di comunità o con il lavoro, sarebbe un buon deterrente. «La detenzione non è perciò l’unica moneta con cui pagare il reato – è la precisazione della presidente del Seac (Coordinamento enti ed essociazioni di volontariato penitenziari) Luisa Prodi – anzi deve essere residuale». Passi avanti in questo «cambio di mentalità» sono stati fatti, ammette, ma «c’è un mondo di sofferenza oltre il suicidio che non va dimenticato, come l’autolesionismo, le morti in carcere per droga e rissa». Il volontariato si è dimostrato un aiuto importante nell’accompagnamento al male di vivere, ancor di più in quelle strutture dirette da figure lungimiranti. Ma ancor più può fare «la società e gli enti locali», magari incentivando i programmi di socializzazione. La «soddisfazione» si accompagna «alla prudenza », quando c’è una flessione dei suicidi anche se «39 persone sono tantissime, se si pensa che in carcere l’incidenza è circa 20 volte di più che fuori». Prova ugualmente ad allargare l’orizzonte il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei Diritti umani e fondatore dell’associazione
A buon diritto, ricordando che «in dieci anni si sono uccisi anche quasi 100 agenti di polizia penitenziaria». A dimostrazione che è «il sistema carcere e l’organizzazione di quella macchina ad essere patogena». Al di là del numero delle vittime della detenzione, però, secondo i dati del dossier
Morire di carcere, redatto dal centro studi di
Ristretti orizzonti, è inoltre il numero dei tentati suicidi ad essere indicativo – 933 nel 2014 quando i suicidi erano stati 44 – ma anche il fatto che le morti nel 2015 si concentrano soprattutto nelle strutture più grandi (e dunque più sovraffollate): Roma Rebibbia e Regina Coeli, Palermo Pagliarelli, Firenze Sollicciano. Queste ultime due ad esempio, insieme a quella di Catania e Termini Imerese, sono tornati alla ribalta invece per l’emergenza freddo, visto che almeno in Toscana i riscaldamenti sono fuori uso da una settimana. Per i «tagli ormai insopportabili» che colpiscono persino acqua e luce, denuncia il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), uniti a problemi «strutturali che insieme a quelli economici – aggiunge il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella – contribuiscono a peggiorare le condizioni di carceri già vecchi, per mancanza di manutenzione».