Bravi Alberto Giubilini e Francesca Minerva! Hanno mostrato coraggio e consequenzialità logica e hanno spiegato apertamente nell’articolo pubblicato sul
Journal of Medical Ethics le conseguenze inevitabili del principio abortista. Se è lecito l’aborto per un qualunque motivo, non si vede logicamente per quale motivo non debba essere lecita, alle stesse condizioni, l’uccisione di un bambino già nato. La differenza, infatti, fra un feto all’ultimo stato (un bambino non nato) e un bambino appena nato è troppo trascurabile perché su di essa si possa basare una diversa valutazione morale e giuridica della loro soppressione. Se è lecita l’uccisione dell’uno, deve essere lecita anche alle stesse condizioni l’uccisione dell’altro. Per la verità, questa conseguenza logica del principio abortivo da tempo era stata tratta dagli antiabortisti. Essa costituisce uno degli argomenti classici con cui gli avversari dell’aborto motivavano il loro rifiuto della distruzione del feto. Il processo di trasformazione e crescita dell’essere umano non conosce uno stacco qualitativo dal concepimento fino alla morte naturale. Non esiste nessuna trasformazione improvvisa che consenta di dire: dopo la nascita il feto diventa qualcosa di sostanzialmente diverso, che deve avere diritti che prima non aveva. In realtà, non esistono nemmeno stacchi che consentano di dire: fra il feto di x settimane e quello di y settimane esiste una differenza qualitativa; oppure, fra il bambino di una settimana e quello di un mese esiste una simile differenza. In effetti, Giubilini e Minerva confermano questa conclusione rifiutando di precisare se l’infanticidio debba essere consentito fino alla fine della prima, della seconda o della quarta settimana. Tendenzialmente il diritto di spegnere una vita che ci genera incomodo dovrebbe essere esteso a tutte le età della vita. Il diritto alla libertà di aborto si salderebbe così con il diritto alla eutanasia. L’articolo di Giubilini e Minerva è interessante (e onesto) anche da un altro punto di vista. Basta con il tentativo ipocrita di giustificare la morte di un altro con le argomentazioni ipocrite che quella vita non meriterebbe di essere vissuta. Chi decide se la vita meriti di essere vissuta o no è chi decide di dare la morte. È ben possibile che la persona che deve morire desideri vivere, specialmente se è un bambino appena nato che non ha idea di quello che noi consideriamo una vita degna di essere vissuta. Se noi tuttavia riteniamo che la sua vita non meriti di essere vissuta, abbiamo egualmente il diritto di farlo morire. Ogni qual volta la vita di un altro ci imponga obbligazioni alle quali non vogliamo far fronte o non riteniamo di poter far fronte, la soppressione di quella vita diventa legittima. E così si apre lo spazio di un’interessante comparazione economica dei costi e dei benefici. Alla fine, se il malato costa troppo alla famiglia o alla società, perché farlo vivere ancora? Finora questi ragionamenti li facevano solo gli antiabortisti più accaniti, e i sostenitori della «libertà di scelta della donna» che non volevano essere chiamati abortisti si ribellavano e cercavano di negare che quelle fossero le loro posizioni o che quelle fossero conseguenze logiche necessarie delle loro posizioni. Adesso sono due giovani brillanti studiosi
pro-choice (cioè pro-aborto) a sostenere con intransigente candore queste tesi. C’è da chiedersi: ci sarà una levata di scudi nel campo della bioetica pro-aborto che rigetti laicamente quelle conseguenze? E ancora: come potrà quella bioetica 'laica' rigettare quelle conseguenze senza sottoporre a revisione critica anche le proprie premesse logiche ed epistemologiche? E se alfine qualcuno trovasse il coraggio di dire, con candore e rigore logico simili a quelli di Giubilini e Minerva, ma con opposta valutazione morale: «Ci siamo sbagliati? O la vita umana è sacra per tutti o non è sacra per nessuno».