sabato 13 giugno 2015
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La felicità e il dolore di una civiltà dipendono molto dalla sua idea di Dio. Questo vale per chi crede ma anche per chi non crede, perché ogni generazione ha un suo ateismo profondamente legato alla sua ideologia dominante. Credere in un Dio all’altezza della parte migliore dell’umano, è un grande atto di amore anche per chi in Dio non ci crede. La fede buona e onesta è un bene pubblico, perché essere atei o non credenti in un dio reso banale dalle nostre ideologie, rende meno umani tutti. Nello sviluppo del suo poema all’interno del Libro di Giobbe, Elihu approfondisce il discorso sul valore salvifico della sofferenza. E pur seguendo una linea teologica che non convince né Giobbe né noi, ci suggerisce comunque nuove domande: «Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all’uomo il suo dovere, che abbia pietà di lui e implori: «Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto», allora la sua carne sarà più florida che in gioventù, ed egli tornerà ai giorni della sua adolescenza» (33,19-26). Il monoteismo biblico è una realtà tutt’altro che semplice e lineare. Assieme alla grande parola sull’unicità di Dio del Sinai, antidoto per l’eterna tentazione idolatrica, scavando nelle scritture ritroviamo viva e feconda anche una falda che ci dona un Dio con una pluralità di volti. Anche Giobbe, nei momenti più drammatici del suo processo, ha invocato un Dio diverso da quello che gli presentava la fede del suo tempo e che lui stesso aveva conosciuto in gioventù. Giobbe cerca continuamente e con tenacia un Dio oltre Dio, un "Goel", un fideiussore, capace di garantire e difendere la sua innocenza e di riconoscere la sua giustizia nei confronti di quel Dio che lo stava uccidendo ingiustamente. Qui anche Elihu ci indica, tra i mille angeli di Dio, un "angelo riscattatore" che mosso a misericordia dal dolore dell’uomo possa intervenire con la sua mano misericordiosa liberandolo dall’abisso dove lo aveva fatto precipitare l’altra mano di Dio. È bella e ricca questa varietà di mani e di volti all’interno dell’unico Elohim (che in ebraico è il plurale di "Elohah", e dell’arcaico "El"), che la tradizione cristiana ha in un certo senso salvato definendo Dio uno e trino, riconoscendo che YHWH è unico ma non è solo, anche se nella dottrina cristiana è scomparso troppo presto il volto oscuro di YHWH, che era ancora presente nei Vangeli (dove un Dio-padre abbandona sulla croce un Dio-figlio). Una divinità tutta e solo luce non può capire le domande di Giobbe né quelle disperate delle altre vittime della terra. Se oggi le fedi vogliono fare casa all’uomo e alla donna del nostro tempo dal cielo vuoto, devono recuperare l’ombra dentro la luce di Dio, abitandola e attraversandola insieme ai tanti Giobbe che popolano il mondo (innumerevoli Giobbe ruotano attorno alle nostre religioni). Giobbe oggi non risentirà Dio parlare dal tuono se eliminiamo le nubi dal cielo delle fedi. Elihu continua a ripetere la giustizia di Dio, e a difenderlo contro Giobbe. Anche lui sente urgente il bisogno di svolgere il mestiere di avvocato difensore di Dio, una professione di cui c’è sempre stato un’offerta molto abbondante in tutte le religioni, a fronte di una "domanda" modesta o inesistente: «Certamente Dio non agisce male, l’onnipotente non viola la giustizia» (34,12). Giobbe aveva invece negato la giustizia di Elohim, partendo non da teoremi teologici, ma dalla sua condizione concreta di vittima. Nel suo processo a Dio, ha cercato di difendere soprattutto la sua innocenza, dimostrando di non meritare le sue pene, che egli interpreta come punizioni divine. Giobbe avrebbe potuto vincere la sua causa nel tribunale divino negando che fosse Dio la ragione del suo male, e quindi salvandolo dal dover rispondere dell’ingiustizia del mondo. Ma non lo ha fatto, e ha continuato a credere in un Dio responsabile del male e del dolore innocente. A questo punto, aiutati da Elihu, dobbiamo però chiederci: perché Giobbe non ha voluto sganciare Dio dal male del mondo? Nella cultura di Giobbe, le gioie, i dolori, le disgrazie, sono espressioni dirette della provvidenza divina nel mondo. Nel mondo suo in quello dei suoi amici ciò che succede è voluto intenzionalmente da Dio, e se accadono cose ingiuste (onesti sventurati e cattivi felici), è Dio che le vuole o quantomeno le permette. La teologia retributiva – presente in quasi tutte le religioni antiche – era il meccanismo più semplice, ma molto potente e rassicurante, per spiegare la presenza divina dentro la storia: gli eventi positivi nella nostra vita sono premi per la nostra giustizia, quelli negativi punizioni per le nostre colpe (o per quelle dei nostri padri). «Elihu proseguì: ti pare ragionevole dire... "A che cosa mi è servito, che cosa ho guadagnato a non peccare?"» (35,1-3). Giobbe, in linea di principio, avrebbe potuto trovare una prima via per salvare la propria giustizia e quella di Dio: avrebbe dovuto semplicemente negare fino in fondo la teologia economico-retributiva. Ma, nel suo universo, il prezzo altissimo di questa negazione sarebbe stato il riconoscimento di una ingiustizia sulla terra nei confronti della quale anche Dio doveva ammettere la sua impotenza. Un prezzo impagabile in quella cultura. L’operazione etica compiuta da Giobbe, di portata rivoluzionaria, è consistita allora nel dimostrare l’innocenza della vittima del male, una rivoluzione di cui noi lettori moderni abbiamo perso il significato più profondo (le nostre fedi e le nostre non-fedi sono troppo diverse e lontane). Arrivati a questo punto del suo libro, dobbiamo però riconoscere anche qualcosa che potrebbe sorprenderci: neanche Giobbe si è liberato completamente dalla teologia retributiva, perché nella sua cultura questa liberazione avrebbe significato semplicemente l’ateismo, o rendere la religione irrilevante. Giobbe, infatti, accusando Dio di ingiustizia nei suoi confronti e nei confronti delle vittime, continua a salvare la cornice culturale della visione retributiva o economica della religione e della vita. E dentro l’orizzonte della fede retributiva, neanche lui (che è quello che più ha tentato di mettere in crisi questa teoria religiosa), riesce a riconoscere una "duplice innocenza": quella del giusto sventurato e quella di Dio. Giobbe ha allora preferito querelare Dio piuttosto che perdere la fede nel Dio che stava querelando. Solo la scoperta di un Dio fragile avrebbe potuto salvare la sua innocenza insieme alla sua fede in un Dio innocente. Soltanto un Dio che diventa anche lui vittima del male del mondo poteva affermare la propria giustizia e quella dei poveri giusti. Forse in quella sua attesa di un Elohim diverso che attraversa l’intero libro e permarrà anche dopo la risposta di Dio, c’era in Giobbe la domanda di un Dio ancora sconosciuto capace di accettare la propria impotenza nei confronti del male del mondo. Insieme alla propria innocenza avrebbe dovuto ammettere un Dio debole, un Onnipotente impotente di fronte al male e al dolore. Ma Elihu indica a Giobbe una seconda strada: l’indifferenza di Dio: «Contempla il cielo e osserva, considera le nubi, come sono più alte di te. Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano?» (35,5-7). Il Dio biblico, però, non è indifferente alle azioni umane: si commuove, si pente, si rallegra, si adira. Elihu allora non può avere ragione, perché Elohim-YHWH si è rivelato un Dio interessato a quanto accade sotto il suo cielo. E Giobbe lo sapeva, lo sa, continua a saperlo. Se per salvare Dio dal male del mondo da lui creato dovessimo negare il contatto tra le nostre azioni e il suo "cuore", perderemmo tutto del messaggio biblico. Giobbe non si è arreso nel suo combattimento anche per salvare un Dio dal cuore di carne. Non si è accontentato, per salvarsi, di un Dio inutile o utile soltanto per le disquisizioni teologiche che finiscono quasi sempre per condannare i poveri. Se le azioni degli uomini sono inutili per Dio è Dio stesso che diventa inutile per gli uomini - non dimentichiamo che l’operazione di Elihu è al centro del progetto della modernità. Giobbe, lo abbiamo visto molte volte, attende e chiama un Dio che assomigli alla migliore umanità e la superi. Noi siamo capaci di soffrire per le ingiustizie e le cattiverie degli altri, e gioiamo per l’amore e la bellezza attorno a noi, anche quando non ne traiamo alcun danno o vantaggio personali. È questa compassione umana il primo luogo dove possiamo scoprire la compassione di Dio. L’antropologia è il primo banco di prova di ogni teologia che non voglia essere ideologia-idolatria. Se Dio non vuole essere un motore immobile né un idolo, "deve" soffrire per il male da noi compiuto, "deve" rallegrarsi per la nostra giustizia, "deve" morire con noi sulle nostre croci. Se noi lo sappiamo fare – quanti padri e madri si inchiodano sui legni dei figli? – "deve" saperlo fare anche Dio. La logica retributiva non è scomparsa dalla terra. La ritroviamo forte e centrale nella "religione" del nostro capitalismo globale. Il suo nuovo nome è "meritocrazia", ma gli effetti e la funzione sono gli stessi delle antiche teologie economiche: trovare un meccanismo astratto (mai concreto) che riesca a garantire, allo stesso tempo, l’ordine logico del sistema e rassicurare la coscienza dei suoi "teologi". Così, di fronte agli scarti e alle vittime del Mercato, il circuito "morale" si chiude riconoscendo la mancanza di qualche merito nei vinti, nei perdenti ("loosers"), nei "non-smart", che si ritrovano sempre più scartati e incolpati per la loro sventura. Al termine del monologo di Elihu, il Libro di Giobbe non ci riporta nessuna risposta né di Giobbe né degli amici. Giobbe continua a restare muto, a chiamare un altro Dio. Un Dio che né Elihu, né Giobbe, né l’autore del dramma conoscono ancora – e forse neanche noi. Ma questo Dio nuovo verrà? E perché tarda così tanto a venire, mentre il povero continua a morire innocente? l.bruni@lumsa.it
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