sabato 14 marzo 2015
In cammino, oltre la visione “retributiva” della fede.
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Il mondo è popolato da un numero sterminato di Giobbe. Pochissimi, però sono quelli che hanno il dono di attraversare le proprie sventure in compagnia del libro di Giobbe. La lettura e la meditazione di questo capolavoro assoluto di tutte le letterature, è anche una compagnia spirituale ed etica per chi si trova nella vita a rivivere l’esperienza di Giobbe: una persona giusta, integra e retta, che nel pieno della sua felicità viene colpito da una grande sventura, senza nessuna spiegazione. Anche i giusti possono cadere in disgrazia. Ma anche oggi, come ai tempi di Giobbe, gli amici, la saggezza popolare, la filosofia e la teologia cercano spiegazioni delle sventure, e ancora oggi si fa molta fatica a pensare che un uomo, una donna, possano essere caduti in rovina senza avere una qualche colpa. Come il dono ha bisogno di una buona ragione per essere spiegato, capito e accettato, così anche per la rovina che si abbatte sugli esseri umani, abbiamo bisogno di trovare un perché che sazi la nostra sete di equilibrio, che appaghi il nostro senso di giustizia. Il nostro buon senso non riesce a convivere con le disgrazie senza ragioni. Il libro di Giobbe, questo monumento dell’etica e della religiosità universale, ci dice invece che la sventura e la rettitudine possono convivere, e che anche chi è giusto e buono può precipitare nel baratro più grande e profondo. Allora la sventura degli altri non dice nulla sulla loro rettitudine, come non dice nulla la loro ricchezza. E in un tempo che sta facendo del merito un nuovo culto, Giobbe ci ricorda che la vita vera è molto più complessa e viva delle nostre meritocrazie. Oggi più di ieri ci sono persone ricche senza alcun merito e con molti demeriti, e persone impoverite perché cadute in sventura sebbene buone.

Ma se la sventura colpisce giusti e ingiusti, buoni e cattivi, allora la grande tentazione è pensare che il mondo sia governato dal caso, dalla dea bendata, negare che valga la pena coltivare la virtù, perché è la fortuna a vincere. Dio, Elohim, YHWH, il Signore dell’Alleanza, la voce buona dei patriarchi, di Mosè e degli altri profeti, è lo stesso Dio di Giobbe o è un altro? O non c’è alcun Dio e siamo destinati a essere divorati da idoli sempre più sofisticati e affamati? Il libro di Giobbe non è solo un grande trattato di etica per salvarsi nei tempi delle grandi prove; è anche un testo che ci mostra un volto diverso del Dio biblico. Quello che attacca Mose per ucciderlo subito dopo avergli parlato sull’Oreb (Esodo, 4), quello che invia un suo angelo a fermare Balaam (Numeri 22), l’avversario di Giacobbe-Israele nel guado notturno dello Yabboq (Genesi, 32). Per poter attraversare il libro di Giobbe, dobbiamo affrontare una lotta durante la notte. Un guado rischioso, che potremo dire di aver superato solo allo spuntare dell’aurora, quando il lottatore notturno ci lascerà il segno, in-segnandoci una nuova dimensione della vita.

In ogni incontro col testo biblico, se vogliamo sperare di sentirci chiamare un giorno per nome da una voce vera, dobbiamo leggerlo come fosse la prima volta, perché solo così ci si apre e ci sorprende. Lo abbiamo detto molte volte. Per incontrare e amare Giobbe questo esercizio spirituale e morale è però indispensabile e assoluto. Dobbiamo perdere figli, figlie, beni, salute, maledire con lui la vita seduti sul mucchio di letame, e soprattutto non dobbiamo accontentarci di facili spiegazioni per tornare velocemente a benedirla. Per questo la lettura di Giobbe è ardua e pochi la portano a termine. Giobbe ci costringe a prendere sul serio le contraddizioni della vita, le non risposte, i silenzi, e tentare il paradosso: iscriverli tutti dentro il libro buono della vita. Se Giobbe, le sue urla di dolore e le sue maledizioni, sono parola di Dio, allora non ci sono parole umane che sono per natura escluse dalla salvezza. Giobbe ha allargato per noi l’orizzonte dell’umano amico di Dio e della vita, inserendoci tutta quell’umanità che conosce solo il linguaggio del dolore e della disperazione, dicendoci che anche le parole mute possono comporre un dialogo vero tra cielo e terra, forse il più vero di tutti. “Non vado più in chiesa, dopo che è morta la mia nipotina di cinque anni. Sono troppo arrabbiato con Dio”, mi disse un giorno un mio amico, un amico di Giobbe.

Giobbe è un libro per la vita adulta. Per leggerlo e amarlo c’è bisogno di aver assaggiato qualche boccone di sciagura, nella propria esistenza o almeno in quella di una persona molto cara. Solo chi riesce a sporgersi sul mistero della vita e guardarla con libertà assoluta, può sperare di penetrare qualcosa del messaggio di Giobbe; ma occorre saper osare fino a chiedere le risposte più difficili, anche quelle che appaiono assurde e impossibili. Senza chiedere l’impossibile, il possibile non è mai buono né vero.

Il tema a cuore del Prologo è la gratuità. La prima scena del libro ci mostra un uomo felice, Giobbe. Ci viene presentato senza padre né madre, come un nuovo Adam, un uomo. È nelle prime parole che si trova il messaggio universale di questo libro: "Giobbe, un uomo, del paese di Uz" (1,1). Il nome Job, dall’etimologia incerta, non è nome ebreo: Giobbe non è un figlio d’Israele, ma solo un uomo, come Adam.  Senza padre né madre. Abitante di un paese straniero, forse nella terra degli edomiti, un popolo straniero, nemico e idolatra. Ogni uomo. Ma Giobbe era anche un uomo "giusto e retto", come Noè. All’inizio del dramma, Giobbe è un uomo felice: "Sette figli e tre figlie aveva generato, settemila pecore, tremila cammelli …" (1,2-3). Era ricco anche per le relazioni felici tra figli e figlie: "I suoi figli si recavano a turno a banchettare nelle residenze di ciascuno e mandavano inviti anche alle tre sorelle perché pranzassero con loro" (1,4). Era anche un uomo pio e devoto: "Concluso un ciclo di visite e banchetti, Giobbe convocava i figli per purificarli" (1,5). Era un uomo “perfetto”, una umanità compiuta e fiorente.

Nella seconda scena ci ritroviamo all’interno di una assise celeste, Dio insieme ai suoi “figli”. Tra questi si trova anche Satana (che nel libro di Giobbe è uno dei membri della corte celeste, forse uno dei figli di Dio). Questi era tornato da un giro sulla terra, e aveva notato la rettitudine di Giobbe. E qui inizia il dialogo centrale. Satana insinua un dubbio, presentato a Dio come una tesi: «Satana rispose al Signore: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? … Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!”» (1,9-11).  

L’espressione "teme Dio per nulla", può anche essere tradotta “senza ricompensa”, “senza essere pagato”. Per questo al cuore del racconto di Giobbe c’è anche una rivoluzione religiosa e antropologica che cerca di superare la visione retributiva della fede (la nostra ricchezza e la nostra felicità sono il premio per una vita fedele, nostra o dei nostri padri), che è stata centrale anche nell’etica del capitalismo.

Ma la domanda sulla gratuità è il centro dell’esistenza dell’umana. Siamo capaci di liberarci dal registro delle reciprocità di cui si compone la grammatica delle nostre relazioni sociali e affettive, e agire solo per puro amore? Giobbe non ci darà risposte facili alla domanda sulla gratuità che sembra essere all’origine della scommessa tra Dio e il suo angelo Satana, e forse non può darcela perché più grande dello stesso grandissimo Giobbe.

La storia di Giobbe è allora un insegnamento non solo sull’etica della sventura del giusto, è anche una riflessione radicale sul senso dell’esistenza umana, e quindi è un grande mito di iniziazione alla vita. I figli e le figlie non sono nostri, il corpo lo lasceremo, il dolore nostro e degli altri è pane quotidiano, la terra dove nasciamo e viviamo non è nostra, i beni non sono per sempre. I nemici e le calamità naturali uccidono prima gli animali (1,14-17), e infine la sciagura più grande: «Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti”» (1,18-19). Allora Giobbe «si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”». (1,20-21). Da questa nudità inizia il suo dialogo, la sua lotta in cerca della benedizione oltre le grandi ferite. Per imparare, senza facili consolazioni, il mestiere del vivere, Giobbe è un incontro decisivo, forse necessario. I suoi amici più intimi sono Qoelet, Leopardi, e alcune grandi pagine di Dostoevskij, Kafka, Nietzsche, Kierkegaard. Se un senso religioso è possibile, questo deve sapere ascoltare fino in fondo e cercare di rispondere a Giobbe.

Se seguiremo Giobbe in profondità, senza sconti e fino alla fine, potremo fare un’esperienza simile a quella che ci narra Raymond Carver nello splendido racconto “Cattedrale”. Un cieco prende la mano del suo ospite, che vedeva con gli occhi del corpo ma non aveva mai visto, o aveva dimenticato, una cattedrale, e mano nella mano riescono a disegnarla insieme. Lasciamoci prendere per mano da Giobbe, e insieme potremo disegnare un capolavoro.

l.bruni@lumsa.it

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