Novembre, mese dei Santi, dei Morti, delle Forze Armate, mese in cui la prima guerra mondiale finì e le sorti della seconda guerra mondiale si fecero chiarissime: alleati in arrivo, tedeschi in fuga. Cerimonie dappertutto. Anche le cerimonie vengono accorpate: se c’è da ricordare qualche nuova vittima, scoperta adesso, lo si fa il 4 novembre. Così il sindaco, gli assessori, la banda comunale, escono una sola volta, per tutti quei motivi. Mi càpita di andare a una di queste cerimonie: in un paese dei Colli Euganei, dove han trovato tre nuove vittime, uccise dai tedeschi pochi giorni prima della fuga.Prendo la parola, come tanti altri. Davanti a me ci sono cittadini del paese, bandiere, tanti cappelli alpini, tante medaglie. E, fonte di sorprese, emozioni e speranze, una nutrita scolaresca delle elementari. Alcuni bambini, sugli 8-9 anni, leggono un foglio ciascuno, parlando in prima persona, da adulti: basta con le guerre, la seconda guerra è stata brutta, hanno ucciso tanti nostri fratelli innocenti, è bello amare la patria e tenerla in pace.Penso: in questi giorni batte sui cieli la storia italiana, la vittoria italiana nella prima guerra, si ricordano vittime italiane, sventolano bandiere italiane, la banda suona canzoni italiane tra cui, due volte, "Il Piave mormorava". Però davanti a me, tra quei bambini, c’è una bambina nera, e non è lì passivamente, è la più partecipe, la più appassionata. Un’immigrata. Canta a voce più alta degli altri, legge con più passione degli altri, quando dice "Italia" si porta la mano sul cuore, cosa che nessun altro fa. È la più italiana di tutti i presenti. Sente la nostra storia come sua storia. Prega per i nostri caduti come suoi caduti. Aspetta la nostra giustizia come una sua giustizia. Quel che ho sempre pensato (gl’immigrati vengono qui per spartire il nostro futuro) si sgretola: gl’immigrati vengono qui per spartire il nostro passato. I loro figli ereditano la nostra storia come i nostri figli, persino più dei nostri figli.Ho letto a suo tempo il diario di un immigrato ("Io, venditore di elefanti"), che qui ha patito malattie di ogni genere, tanto che lo operavano ripetutamente, gli avevano tolto mezzo intestino, ma lui ripeteva che non sarebbe mai tornato in patria, qui era e qui restava, perché qui c’è vita, in casa sua non c’è niente. La vita era la gente, i negozi, le vetrine, la televisione, i lampadari, il neon. Aveva trovato un televisore in bianco e nero, lo aveva sistemato nella sua baracca, e di sera i suoi connazionali venivano a vederlo: spettacoli, la folla, il mondo, il progresso. Lo capisco. Vengono per spartire il nostro presente e il nostro futuro, perché a casa loro non hanno un presente e non hanno un futuro. Ma questa bambina nera che partecipa alla commemorazione dei nostri caduti con la mano sul cuore, mi dice un’altra cosa: vogliono spartire anche il nostro passato. Quei bambini non hanno altra "casa loro" che questa. Quando si dice "a casa non hanno niente", s’intende che non hanno beni altrove. Non è sufficiente. Non hanno più neanche una storia altrove. Stanno ereditando la nostra storia, la stanno facendo loro.La bambina nera che parla in prima persona, perché i nostri caduti sono i suoi caduti, fa nascere una domanda dentro di me: saranno contenti, quei caduti di 68 anni fa, nel vedere che li ricorda anche una piccola venuta qui dall’Africa? Contentissimi: penseranno che la loro memoria si espande, li piangono e li celebrano anche figli di altre parti del mondo, condividono i loro ideali, se essere ricordati ha un senso, essere ricordati "dappertutto" ha più senso. Quando la piccola dalla pelle nera dice "Italia" e si posa la mano sul cuore, non vien voglia di dire a lei: "Tira via la mano dal cuore", ma di dire ai suoi compagni: "Mettete anche voi una mano sul cuore, imparate da lei".