mercoledì 8 ottobre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
​Si resta sbalorditi di fronte alla miscela di forzature polemiche, strappi istituzionali, mistificazioni giuridiche e vere e proprie capriole logiche, innescata dalle reazioni all’invio da parte di Angelino Alfano di una circolare per vietare la trascrizione anagrafica dei matrimoni fra gay contratti all’estero. Il ministro dell’Interno, a partire dal primo caso di registrazione "coatta", effettuata nell’aprile scorso a Grosseto grazie a una sentenza del tribunale che tuttora attende il vaglio di ulteriori gradi di giudizio, ha dovuto constatare nelle ultime settimane un crescendo di atti e decisioni, più o meno formali, assunti o in via di definizione in diverse città. Tutte indirizzate all’obiettivo, giuridicamente inammissibile, di parificare nei registri dello stato civile comunale le unioni omosessuali celebrate altrove con le nozze celebrate in Italia, ovviamente solo fra uomini e donne.Rientrando tra le sue competenze anche il settore delle autonomie locali (al Viminale esiste una specifica direzione centrale che si occupa di Comuni e Province, nell’ambito del Dipartimento per gli affari interni e il territorio), il ministro è stato da più parti sollecitato a dare un’indicazione di comportamento univoco alle strutture periferiche dello Stato che da lui dipendono, a cominciare dalle prefetture. E la direttiva non poteva, semplicemente non poteva, andare in una direzione diversa da quella imboccata. Perché un ministro della Repubblica, interpellato in punto di diritto, ha unicamente ed esclusivamente il dovere di mantenere gli attori istituzionali che da lui dipendono (compresi, in questo caso, i sindaci nella loro veste di ufficiali di stato civile) nell’alveo delle norme vigenti.Ed è davvero incredibile constatare che quasi nessuno, nello scatenamento del coro critico peraltro prevedibile e in larga misura scontato, abbia almeno voluto distinguere il piano politico da quello giuridico, ammettendo che da questo punto di vista Alfano – comunque la pensi – non aveva la facoltà di scegliere altre soluzioni. Si constata, in altri termini, che quando sono in ballo argomenti cari all’universo "lgbt", non esistono più argini né canoni di valutazione condivisi. Che ogni regola può tranquillamente saltare e che, addirittura, richiamarsi alle leggi della Repubblica equivale a commettere intollerabili soprusi.La conseguenza l’abbiamo verificata ieri in sede di cronaca, ascoltando invettive e anatemi che sovrappongono e accavallano fra loro argomentazioni tra il risibile e il cervellotico. Abbiamo sentito il sindaco bolognese, che preannuncia una non meglio precisata «disobbedienza», parlare di «sfratto dei sentimenti», quando è lui che si predispone a cacciare fuori dalla porta il più importante inquilino che un primo cittadino dovrebbe tutelare: il rispetto della legge. Abbiamo registrato l’epiteto di «califfo», affibiato ad Alfano da chi valica sistematicamente, da perfetto talebano della cultura, i confini dello Stato di diritto, cercando di incanalare a forza nel mainstreaming che gli è caro un’intera società. Abbiamo letto di un presidente di regione, appartenente alla lobby di cui sopra, tuonare contro un ministro «cavernicolo», senza rendersi conto che è lui a pretendere per primo che si impugni la clava dell’illegalità e senza misurare l’effetto dirompente che una prassi del genere, una volta instaurata, può produrre sulla collettività e sugli individui.Resta da dire una parola sul presunto argomento "principe": quello dei pretesi diritti costituzionali dei "coniugi gay" che risulterebbero violati dal divieto di registrazione. Nel suo ultimo pronunciamento in materia, la Consulta ha ribadito con chiarezza che un’eventuale disciplina di diritti e doveri di coppie omosessuali non può comportare l’equiparazione al matrimonio, che in Italia rimane possibile solo se gli sposi sono di sesso diverso. Eppure si invoca la Carta fondamentale, nel momento stesso in cui si invita a forzarne impunemente i princìpi ispiratori, a cominciare da quelle «forme» e da quei «limiti» che il suo primo articolo fissa per dare attuazione alla sovranità popolare. Tutto questo si chiama prevaricazione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: