L’anno nuovo in certi giorni, sulle pagine dei giornali, sembra così duro e quasi ostile. La crisi stringe, la ripresa stenta e l’euro trema; e quella grande nave arenata al Giglio sembra una dolente immagine di noi. La sensazione, certi giorni, di camminare dentro una realtà opaca, senza un orizzonte in cui sperare. Stando alla pura aritmetica dei fatti è in effetti più del solito difficile sperare, in questo inizio di 2012. Viene da cercare un alimento alla propria speranza; e non buone parole, ma ragioni cui attaccarsi e far forza, come gli alpinisti in parete si aggrappano alle rocce. Cercando queste rocce, ho preso l’abitudine di rileggere i discorsi di Benedetto XVI; avendo notato che pure nella complessità vi si trovano dentro, come fra le righe, brevi frasi semplici e utili a noi poveri cristiani, nella quotidianità delle nostre giornate. Poche parole lasciate come suggerimenti, come risposta a tante tacite domande; sentieri, piste, quasi, dati da un vecchio cristiano, che per i nostri stessi silenzi e solitudini è passato, e ha saputo andar oltre. Sentite per esempio queste quattro righe della omelia dell’Epifania, riferite ai Magi: «Erano persone dal cuore inquieto, che non si accontentavano di ciò che appare ed è consueto.Erano uomini alla ricerca della promessa, alla ricerca di Dio. Ed erano uomini vigilanti, capaci di percepire i segni di Dio, il suo linguaggio sommesso e insistente». Noi siamo abituati a pensare ai Magi avviati in un cammino di cui già sappiamo l’esito, e la gloria. Ma quei tre erano partiti da lontano, senza altro in mano che lontane memorie di profezie, e oscuri calcoli astronomici. Chissà, tra chi li vedeva passare, quanti dubitavano di quella singolare impresa. Un corteo reale che avanza in terre straniere seguendo una stella, cercando un bambino. (Un bambino, capite, un bambino. Forse nello stesso seguito, di nascosto, qualcuno sorrideva). Ma i tre re avevano quel cuore inquieto; non bastava una reggia, ori, servi. «Non si accontentavano di ciò che appare ed è consueto». Cercavano le orme lasciate da Dio. La terra, le piante, le parole dei profeti, e il gran cielo, di notte; i re avevano occhi che sapevano guardare e orecchi capaci di cogliere quella lingua sommessa, che agli altri, attenti solo alle cose che si possono toccare e misurare, sfuggiva. E sembra quasi, l’inciso dell’omelia dell’Epifania, un viatico a noi, per quest’anno che viene; esortazione a farci anche noi pellegrini, tenaci e non distratti, capaci di cercare oltre alla pura e forse dura apparenza. Attenti ai segni di un Dio, che parla piano. O, ancora, e sempre parlando di speranza, torna in mente un passo dell’udienza del 19 ottobre scorso dedicata al Salmo 136, detto il Grande Hallel, quello che veniva cantato nella pasqua ebraica e che ripete: «Eterna è la Sua misericordia», scandendo la incrollabile fiducia di Israele a partire dalla sua storia di predilezione e salvezza. A un certo punto il Papa si domandava: come possiamo fare di questo salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarcene? (Dove, cioè, un cristiano oggi può attingere questa certezza che Dio è misericordioso?). E in risposta indicava tra l’altro due strade: la prima, guardare al creato, che sembra tornare allo "stare in ascolto" dei Magi; la seconda, attingere alla memoria della propria storia. La struttura fondamentale del Grande Hallel infatti è che Israele si ricorda della bontà di Dio. Nella sua storia ci sono tante valli oscure: ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere, in quanto si ricorda. E questo, diceva Benedetto XVI, è importante anche per noi: avere memoria della bontà di Dio. (Memoria di essere stati messi al mondo, amati, educati; di avere padri, amici, figli; di quel bene ricevuto che spesso dimentichiamo). La memoria, e qui sta la breve parola utile per noi poveri cristiani, «diventa forza della speranza». E apre, anche nell’oscurità dei giorni difficili, la strada. Come quella luce inseguita dai tre re. Pellegrini nel buio, come noi; ma così splendidamente ostinati.
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