sabato 4 aprile 2015
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L’umanesimo biblico non assicura la felicità ai giusti. Mosè, il profeta più grande di tutti, muore solo e fuori della terra promessa. Per i giusti ci deve essere qualcosa di più vero e profondo della ricerca della propria felicità. Alla vita chiediamo molto di più, soprattutto il senso delle infelicità nostre e di quelle degli altri. Il libro di Giobbe è dalla parte di chi ostinatamente cerca un senso vero per la delusione delle promesse grandi, la sventura degli innocenti, la morte delle figlie e dei figli, la sofferenza dei bambini. Dopo il primo dialogo con Elifaz, ora è il secondo degli amici a prendere la parola: «Bildad di Suach prese a dire: “Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca? Può forse Dio sovvertire il diritto o l'Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha abbandonati in balìa delle loro colpe”» (8,1-4). Bildad per non può mettere in discussione la giustizia di Dio è costretto a negare la rettitudine di Giobbe e dei suoi figli. Per la sua etica, astratta e senza umanità, se i figli (e Giobbe) sono stati puniti dovevano avere peccato. La sua idea di giustizia divina e di ordine lo porta così a condannare e a tradire l’uomo. E invece sono molti i figli a morire senza nessuna colpa, ieri, oggi, sempre. Sulle Alpi francesi, in Kenya, sul Golgota. Ovunque. Non esiste nessun peccato che per essere espiato richieda la morte di un figlio, a meno di voler negare ogni differenza tra Elohim e Baal, tra YHWH e gli idoli affamati. Il poema di Giobbe è un test sulla giustizia di Dio, non su quella di Giobbe (che ci viene rivelata già dalle prime righe del prologo). È Elohim che deve dimostrarci che è veramente giusto nonostante il dolore degli innocenti. Per rispondere al suo “amico”, due sono le strade che si aprono davanti a Giobbe. La prima, che è sempre la più semplice, è ammettere che nel mondo non ci sia nessuna giustizia: Dio non c’è o è troppo lontano per svolgere il mestiere di giudice giusto degli uomini. La seconda via è tentare l’impensabile per il suo tempo (e per i credenti di tutti i tempi): mettere in questione la giustizia di Dio, chiedergli ragione dei suoi atti. Giobbe nel rispondere a Bildad attraversa queste due possibilità estreme: «Benché innocente, non mi curo di me stesso, detesto la mia vita! Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l'innocente e il reo! Se un flagello uccide all'improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balìa del malfattore» (9,21-24). Non gli interessa la sua vita (questa è pura gratuità), ma la giustizia nel mondo; e così Giobbe osa il non-osabile, arrivando a negare la possibilità dell’esistenza di qualsiasi giustizia divina. Qui Giobbe continua ad allargare l’orizzonte dell’umano incluso nell’umanesimo biblico, prendendo sulla sua arca i tanti che continuano a chiedersi se un Dio buono e giusto ci può essere in un mondo dal dolore e dal male inspiegabili. Giobbe ci dice che una domanda senza risposta può essere più religiosa di risposte troppo semplici, e che anche un “perché” può essere preghiera. Dopo Giobbe non c’è sulla terra un rosario più vero di quello composto da tutti i “perché” disperati e senza risposta che si levano verso un cielo che continuano a volere abitato e amico. Giobbe continua a chiedere un fondamento della terra più profondo del caos e del nulla. Ma per cercare e volere un Dio vero al di là dell’apparente “banalità del bene”, Giobbe con la forza della sua fragilità chiede a Dio di rispondere delle sue azioni, vuole un Dio responsabile. In realtà, ci sarebbe stata una strada più semplice: imboccare la scorciatoia consigliatagli dai suoi amici, ammettendo la sua colpevolezza. Ma Giobbe per una misteriosa fedeltà a se stesso e alla vita non segue questa terza via. Giobbe avrebbe potuto riconoscere di essere peccatore (quale uomo giusto non ha la coscienza di esserlo?), implorare il perdono e la misericordia divina, e così salvare la giustizia di Dio e sperare anche di guadagnare un proprio riscatto personale. Ma non lo fece, e continuò a chiedere ragioni, a dialogare, ad attendere un volto di Dio diverso. A credere nella propria rettitudine. Una difficoltà grande che si trova a vivere una persona giusta durante le lunghe ed estenuanti prove della vita è non perdere la fede nella propria verità e giustizia. “Non era vero che l’ho fatto per il bene…”, “Sono stato un superbo …”, “In fondo sono un bluff …”. Ma quando le nostre colpe (che sempre ci sono) ci suggeriscono una lettura della nostra vita che diventa via via la più convincente, perdiamo ogni aggancio con la verità e ci perdiamo, anche se per una disperazione diversa e meno vera chiediamo perdono e imploriamo la misericordia di Dio e degli altri. Questo cedimento non è umiltà, ma solo l’ultima grande tentazione. Possiamo sperare di salvarci dalle prove simili a quelle di Giobbe finché la storia della nostra innocenza e rettitudine ci convince di più della storia dei nostri peccati e della nostra cattiveria. È la fede-fedeltà in quella “cosa molto bella e molto buona” (Gen 1,31), che nonostante tutto siamo e restiamo, che può salvarci nei momenti delle grandi e lunghe prove. È a questa sua (e nostra dignità) che si aggrappa anche Giobbe: «Ricòrdati che come argilla mi hai plasmato» (10,9). Una fede che include anche i figli, le persone che amiamo, e che un giorno potrà arrivare a includere ogni essere umano. Giobbe ha continuato a credere nella sua innocenza perché noi, meno giusti di lui, potessimo oggi continuare a credere nella nostra. Giobbe, poi, non può credere che i figli avessero meritato la morte. Nessun figlio merita di morire. Sulla terra c’è molta verità e bellezza perché le madri e i padri continuano a credere, a volte contro ogni evidenza, che i figli e le figlie non sono colpevoli. Tante volte ci siamo salvati e continuiamo a salvarci solo perché almeno una persona ha continuato a credere che la nostra bellezza e bontà fossero più grandi dei nostri errori. Che luogo molto più triste sarebbe la terra senza gli sguardi di resurrezione delle madri e dei padri? L’estrema fedeltà di Giobbe a se stesso lo spinge poi all’atto più sovversivo. Non vuole negare la giustizia di Dio, ma non può negare neanche la sua propria verità. Così, dalla morsa nella quale sembra schiacciato, ecco emergere inattesa una terza possibilità, impensata e impensabile. Giobbe chiama in giudizio Dio stesso. Il suo letamaio si trasforma in un’aula di tribunale. L’imputato è Elohim, i suoi avvocati gli amici di Giobbe, l’inquisitore è Giobbe: «Io sono stanco della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell'amarezza del mio cuore. Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. È forse bene per te opprimermi, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?”» (10,1-4). Ma – si chiede – come è possibile chiamare in giudizio Dio, denunciarlo, se l’imputato è anche il giudice? «Poiché non è uomo come me, al quale io possa replicare: “Presentiamoci alla pari in giudizio”. Non c'è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi» (9,32-33). In realtà c’è un giudice-arbitro in tutto il libro di Giobbe: il lettore, che durante lo svolgimento del dramma è chiamato a prendere parte, a esprimersi per l’uno o per l’altro dei contendenti. Un lettore-arbitro contemporaneo di Giobbe lo avrebbe condannato, considerando la sua arringa un atto di superbia e di indolenza. La difesa di Giobbe è cresciuta con la storia, con i profeti, i vangeli, Paolo, i martiri, e poi la modernità, i lager, il terrorismo, l’eutanasia dei bambini. Giobbe è più contemporaneo a noi di quanto non lo fosse all’uomo del suo tempo, e lo sarà ancora di più nei secoli che verranno. Con il “processo a Dio” siamo allora dentro una autentica rivoluzione religiosa: anche Dio deve dar conto delle sue azioni se vuole essere il fondamento della nostra giustizia. Deve farsi capire, dire altre parole oltre alle tante che aveva già detto. Se vuole essere all’altezza del Dio biblico dell’Alleanza e della Promessa, e affrancarsi dai culti idolatrici, stupidi come i loro feticci. Il libro di Giobbe, allora, incastonato nel cuore della Bibbia, ci porta su un’alta vetta e da lì ci invita a guardare tutta la Torah, i profeti, e poi il Nuovo testamento, le donne e gli uomini di tutti i tempi. E rappresenta una prova della verità dei libri che lo precedono e di quelli che lo seguono. Un’altra volta fu celebrato un processo che aveva Dio come imputato. Le parti però si ribaltarono. L’uomo era il forte, quasi onnipotente, che interrogava e giudicava. Dio era fragile, condannato, crocifisso. Tra questi due processi estremi si inscrivono tutta la giustizia, l’ingiustizia, le speranze del mondo. Questo Giobbe non lo sapeva, non poteva saperlo. Ma sarà stato il primo a far festa per il sepolcro vuoto. Solo i crocifissi possono capire e desiderare le resurrezioni. Buona Pasqua. l.bruni@lumsa.it
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