La storia delle religioni e dei popoli è il dispiegarsi di una vera e propria lotta tra chi imprigiona Dio dentro le ideologie e chi cerca di liberarlo. I profeti appartengono alla categoria dei liberatori di Dio, che svolgono la funzione essenziale di critica di tutti i poteri che in ogni epoca subiscono il fascino invincibile di usare le religioni e le ideologie per rafforzare le proprie posizioni di dominio. Giobbe è uno di questi profeti, quello che più di tutti ci costringe ad andare al cuore del meccanismo del potere, criticando e attaccando direttamente l’idea di Dio costruita dalle ideologie del suo tempo.
Non si limita quindi a criticare i potenti, i sacerdoti e i re, ma come e più dei grandi profeti della Bibbia vuole smontare l’idea di Dio che sostiene artificialmente l’intero edificio del potere. La sua richiesta ostinata di processare il Dio ideologico dei suoi “amici” è la pre-condizione per liberare la possibilità di un altro Dio.
Quando in una comunità religiosa Giobbe è eclissato o ammutolito, proliferano le "risposte in nome di Dio" e spariscono le "domande a Dio". E quando smettiamo di fare domande nuove e difficili a Dio, gli impediamo di parlare alla nostra storia e di crescere in essa, lo imbrigliamo all’interno di categorie astratte che non capiscono più le parole e le grida delle vittime. I profeti sono indispensabili perché chiamano l’uomo a morire e risorgere per liberarsi dalle idolatrie, e perché costringono Dio a morire e risorgere per essere all’altezza dell’umano vero.
Al termine dei loro discorsi a Giobbe, i tre amici non hanno ottenuto nulla. Giobbe è sempre più convinto della sua innocenza, e quindi sempre più deciso ad attendere Dio in un processo equo dal quale spera di essere scagionato da un Dio diverso che non vede ancora, ma sente possibile. Le teo-ideologie dei suoi interlocutori invece di avvicinargli le ragioni di Dio gli hanno solo rafforzato la convinzione della sua propria giustizia. Quei dialoghi hanno però avuto il grande merito di farci conoscere Giobbe e la sua radicale rivoluzione religiosa e antropologica. E così, quel grande dolore e quell’infinita sventura che all’inizio ci apparivano come una alta siepe di sofferenza che ci occludeva l’orizzonte degli uomini e di Dio, ci hanno via via aperto interminati spazi al di là di quella, nuovi orizzonti dell’uomo e nuovi orizzonti di Dio.
Come cerniera tra la prima e la seconda parte del libro, incontriamo ora un Inno alla Sapienza, forse un poema preesistente inserito dall’autore del libro per spezzare il ritmo narrativo, e farci prendere fiato. Un interludio difficile da decifrare ma ricco di poesia, l’ennesimo dono di questo immenso libro. «L’argento ha la sua miniera, l’oro il suo crogiolo», gli uomini esplorano «gli antri più profondi, le grotte più lugubri», perforano gallerie nel sottosuolo, e per raggiungere i preziosi metalli «penzolano sfiniti». È l’uomo della tecnica che usa la sua intelligenza per dominare il mondo: «Nella roccia trivella gallerie, in cerca di ogni prezioso, sbarra le sorgenti dei fiumi, porta alla luce ciò che è occulto» (28,1-11).
Ci viene però mostrata l’ambivalenza della tecnica. Come ogni uomo antico, anche l’autore del libro di Giobbe è stupito e ammirato dalla capacità che gli uomini hanno sviluppato nel dominare la materia, le cose, il mondo. Ma dentro la tecnica vede nascosto e reale anche il rischio di abuso: «La terra che ci dà il pane è turbata con un fuoco sotterraneo. … L’uomo pone mano alla selce, sovverte le montagne dalle radici» (28;5,9).
La tecnica ha una sua legge intrinseca che spinge gli uomini a scavare gallerie sempre più profonde, a rovesciare le montagne in cerca di materiali preziosi, affamando così i contadini che vivevano su quelle terre, ieri e oggi. Se vogliamo capire allora il messaggio biblico sul rapporto tra l’uomo e la natura, dobbiamo leggere il comando di “sottomettere la terra” contenuto nella Genesi (1,28) assieme a questo inno del libro di Giobbe, dove viene riconosciuto il valore dello spirito della tecnica ma viene distinto dallo spirito della sapienza: «La sapienza da dove si estrae? Dov’è il giacimento dell’intelligenza?» (28,12). La sapienza non si estrae nelle miniere, né la si può acquistare sui mercati barattandola con i metalli preziosi: «Non si scambia con oro massiccio, né si pesa con l’argento come suo prezzo. (…) Non la equivale il topazio di Nubia, né si compara con l’oro più puro» (28,17-19).
Per cogliere la portata innovativa di queste parole dobbiamo tenere presente la cultura del tempo, tutta intrisa di teologia “economica”. Per quel mondo mediorientale antico era certo che l’oro, l’argento, il topazio e le perle non compravano la sapienza; questi erano tuttavia segni inequivocabili di benedizione di Dio, di quello stesso Dio da cui proviene la sapienza. Ed era comune pensare che non si diventa ricchi senza sapienza. Lo spirito della ricchezza e quello della sapienza erano considerati l’uno lo specchio dell’altro. Lo stolto non diventa ricco, e se nasce ricco diventa povero se non possiede la sapienza. Come anche l’ingegnere e lo scienziato non sono “intelligenti” senza sapienza.
Questo inno, invece, separa la ricchezza (e la tecnica) dalla sapienza, e così facendo si pone dalla parte di Giobbe, che ci ha ripetuto che non esiste alcun rapporto tra ricchezze e giustizia, perché sulla terra ci sono giusti ricchi e giusti sventurati, e viceversa. L’oro e l’argento di una persona non dicono nulla sulla sua rettitudine: Giobbe era giusto da ricco e continua a esserlo da povero e sventurato. I beni passano e sono mutevoli, la giustizia e la sapienza sono per sempre, e quindi sono un investimento molto più intelligente.
Potremmo quindi leggere questo interludio come una conferma e un’approvazione della “teologia” di Giobbe e una critica alle teologie economiche e retributive degli amici. Questo inno alla sapienza ci ricorda poi l’antica e importante verità che la sapienza è dono, è gratuità, "charis", non è una merce da acquistare né con oro né tramite indovini o maghi. Anche in questo Elohim-YHWH si distingue dagli idoli, che danno ai loro adulatori la loro “sapienza” se pagano il prezzo in termini di sacrifici e sottomissione. Il Dio biblico non è un idolo perché non vende la sapienza, ma la dona liberamente – ogni religione retributiva è, nella sostanza, una religione idolatrica e commerciale. Parole che potevano essere pronunciate anche da Giobbe.
Ma – e qui sta il mistero e l’interesse di questo capitolo – l’autore ci dice qualcos’altro che complica il discorso, e ci costringe a scavare di più. Ci dice che la sapienza è inconoscibile e irraggiungibile dall’uomo: «Dio solo ne discerne la via, Lui solo ne conosce il giacimento» (28,23).
E qui si allontana decisamente da Giobbe. Non tutto il libro di Giobbe è all’altezza di Giobbe. Dobbiamo salvare le parole di Giobbe dalle altre molte parole del suo libro, incluse quelle di Elohim che tra poco ascolteremo.
Giobbe nega la legge che lega giustizia a ricchezza, ma crede che c’è, che ci deve essere, una logica della sapienza. Il Dio che egli chiama e attende non è un contabile che assegna i beni agli uomini in base ai loro meriti, perché sarebbe un dio banale come tutti gli idoli. Ma non accetta l’idea che non ci sia alcun legame tra "giustizia" e sapienza: il giusto è sapiente, anche se povero e sventurato. E la prova di questo sono la storia e la vita di tutti, dove la sapienza non coincide con l’intelligenza della tecnica, ma dove esiste ed è vero un rapporto tra rettitudine e sapienza. Conosciamo persone sapienti e ignoranti, sapienti e povere, sapienti e non molto intelligenti. L’homo faber e l’homo oeconomicus possono essere sciocchi, e sovente lo sono. L’uomo giusto no, perché Dio, se non è un idolo, "deve" donare la sapienza a chi segue la giustizia, anche quando la segue (come sta facendo Giobbe) negando la giustizia di Elohim.
Una persona falsa, iniqua, malvagia non è mai sapiente: questa legge non è meno vera di quella che muove il sole e le altre stelle. L’uomo iniquo può sperare in tutti gli altri beni, non in quello della sapienza. Giobbe conosce questa legge perché la vede nel mondo, ma soprattutto perché la porta iscritta nella sua coscienza. E anche noi la conosciamo e la riconosciamo fuori e dentro di noi (sta qui la speranza di poterci convertire sempre, fosse anche nell’ultimo soffio di vita). Allora la miniera della sapienza esiste: si trova dentro di noi, e per scoprirla occorre solo restare fedeli alla verità che ci abita. Questo è il messaggio principale di Giobbe.
Questo Inno alla Sapienza contiene allora una mezza verità. Ci ricorda che la sapienza è dono, ma non ci dice che questo dono lo riceviamo venendo al mondo, e che abita dentro di noi. È lì dove possiamo scavare per raggiungerlo, e raggiunto scopriamo che è la parte migliore di noi. È lì che possiamo incontrare, scoprire, ascoltare, seguire la sapienza. È lì che possiamo riconoscere anche la voce di Elohim, una voce che non potremmo riconoscere se non fosse già dentro di noi, magari coperta o ferita. Se l’"adam" è impastato a immagine di Elohim, la sapienza divina è anche la sapienza umana. Il cielo dentro di noi non è diverso dal cielo sopra di noi, e se si abbuia il cielo dentro anche quello in alto si spegne o si riempie di idoli.
Il canto di Giobbe è un grande inno alla verità dell’essere umano vivente, che è più vera di tutte le sue notti. Se Dio è vero anche l’uomo è vero, e la sua coscienza retta non è auto-inganno. Se Dio è sapienza, anche l’uomo è sapienza. Se separiamo queste due sapienze-verità – lo abbiamo fatto molte volte, e continuiamo a farlo – le religioni diventano inutili, gli umanesimi si smarriscono, e Giobbe termina il suo canto.
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