giovedì 2 agosto 2012
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Proprio in questi giorni è stato inaugurato a Roma il centro "Exit", nato dalla collaborazione di neonatologi e ostetrici del Policlinico Gemelli e del Bambino Gesù. Exit è la sigla che indica una tecnica con cui i medici intervengono sul feto (l’exit viene eseguita quando il feto ancora riceve sangue dalla mamma attraverso la placenta) poco prima della nascita effettiva per favorire la cura di certe patologie congenite, e che già in alcuni Paesi è impiegata con successo. È un’ottima notizia, perché la Exit e le varie forme di chirurgia fetale non solo mostrano il bimbo non ancora nato come paziente – dunque è culturalmente un passo importante –, ma anche perché realmente, con grande soddisfazione delle famiglie, riesce a salvare delle piccole vite che potrebbero avere un destino triste. Ottima notizia, anche perché invece sembra che le risorse (e l’attenzione dei media) in ambito prenatale siano indirizzate in stragrande parte verso la diagnostica prenatale genetica. Entra per esempio in commercio in questi giorni in Svizzera l’ennesimo test per individuare prima della nascita chi è Down e chi non lo è. Non ne sentivamo la mancanza, anche perché sistemi per individuare i bimbi Down non mancano. Certo, ci sono mamme ansiose per le quali avere conferma che il figlio non è malato serve a rasserenarsi; ma quanti padri e madri usano test genetici prenatali nell’ottica quasi routinaria di abortire se il figlio non è "conforme"? Si moltiplicano i test genetici prenatali; e salta all’occhio l’impiego di risorse su risorse per questo scopo, mentre invece in molti Paesi le associazioni di persone con disabilità varie lamentano tagli su tagli negli stanziamenti sociali e nella ricerca per aiutare chi è malato, chi ha malattie rare, chi ha familiari portatori di handicap. Anche chi sostiene la liceità dell’aborto trova difficile a questo punto sostenere che l’aborto sia una scelta libera: quale libertà può esserci se l’alternativa di "tenere" il bambino non solo non trova un sostegno economico, ma neanche culturale o sociale? Eppure la medicina non ha difficoltà a riconoscere che il feto è un paziente e va curato; e probabilmente se questi sforzi e questa consapevolezza venissero assecondati, tutta la società ne trarrebbe vantaggio. Il problema che ci dovremmo porre, viste queste notizie, è duplice. Riguarda in primo luogo l’allocazione delle risorse e quanto sarebbe auspicabile che gli Stati dedicassero più attenzione alle cure che all’alba della vita favoriscono la vita stessa, come fa il nuovo centro di terapia fetale romano. Il secondo punto riguarda la cultura che si respira in occidente riguardo la vita prenatale. È una cultura che unisce disinformazione, paura e abbandono che mischiati senza cura stuzzicano la parte emotiva dei futuri genitori. Ma la paura dovrebbe essere combattuta culturalmente da una società che mostri con i suoi strumenti potenti di non classificare i cittadini in categorie a seconda della malattia; mentre l’abbandono di chi ha maggiormente bisogno non è accettabile in un mondo che si dice moderno ed evoluto.Che segnale forte sarebbe, allora, introdurre un percorso virtuoso di diagnostica prenatale in tutti gli ospedali e in tutti gli ambulatori europei, per il quale alla diagnosi di una malattia genetica fetale la famiglia venisse indirizzata automaticamente verso chi la cura prima e dopo la nascita e allo specialista della malattia in questione; e se i genitori volessero, anche verso chi questa malattia già la vive nella sua famiglia, per uscire dall’emotività e trovare una strada al desiderio di vita e di amore. Se poi si capisse che c’è tanta gente che semplicemente vuole più aiuto per accogliere più figli, e si indirizzassero lì le risorse, saremmo davvero sulla strada giusta.
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