Tredici corpi inerti sulla spiaggia, sotto ai teli bianchi. E, arenata a forse quindici metri da riva, una vecchia barca. Era così vicina, ieri mattina a Scicli, la salvezza, la terra tanto agognata. Ma quei tredici, non sapevano nuotare. Per costringerli a tuffarsi, gli scafisti li hanno presi a bastonate e a cinghiate. E allora giù, nel mare, annaspanti, terrorizzati, l’acqua che arrivava alla gola, e poi la riva per sempre lontana.Sembra, ad ascoltarla, una tragedia di secoli remoti, di tempi bui di mercanti di schiavi che traghettavano merce umana nel Nuovo mondo. Invece è successo ieri notte, e in quei luoghi della costa ragusana che gli italiani vedono in tv, dietro alle storie del commissario Montalbano. Sulla stessa spiaggia di Sampieri, otto anni fa, morirono in venticinque. Da allora, nel Canale di Sicilia, quanti altri morti. Più che una tragedia annunciata, una tragedia cronica su quel tratto di mare che divide il Terzo Mondo dal Primo. Il mondo della fame e delle guerre dal nostro, in crisi, ma in cui comunque si vive.E pare che allo stillicidio di naufragi la gente europea si sia abituata e rassegnata. Occorreva un uomo venuto da un altro Continente per farci ritrovare, di fronte a queste morti, sbalordimento e angoscia: lo sguardo del Papa su Lampedusa ha richiamato l’Europa al dramma che percorre il suo confine meridionale. E però accade ancora, accade ogni notte, che un vecchio legno stracarico tenti la sorte, verso l’Italia, verso l’Europa. Solo in questo 2013 secondo Migrantes sono morti in almeno 200 – che vuol dire uno al giorno.E noi qui, davanti alla tv che mostra quei morti allineati – morti veri, non come quelli del commissario Montalbano – fatichiamo a capire come ci si possa imbarcare in un viaggio così, su quelle carrette sfasciate, con dei bambini, poi, o, molte donne, incinte. Noi non capiamo, ma chi arriva vivo dal Corno d’Africa, dal deserto, dai campi profughi in Libia, spiega che è meglio sfidare la morte che semplicemente aspettarla, là da dove si è partiti. Che, almeno, il mare concede qualche possibilità di salvezza, mentre il restare, no.Allora, noi taciamo. Forse impotenti, davanti a un flusso migratorio da cui, senza magari ammetterlo, ci sentiamo minacciati. Oppure distratti dai nostri guai – un governo in bilico, un Paese pieno di guai, e l’Imu poi, e l’Iva, che aumenta. Eppure tutti questi nostri problemi sembrano da poco, se solo ci sforziamo di immaginare il viaggio di quelle barche nel buio. Pigiati in duecento, fra il pianto dei bambini, sotto il sole a picco e poi nella notte scura, la bocca secca di sete, e il mare attorno, sconosciuto e immenso. Davvero inevitabili, queste sciagure? Le associazioni che assistono chi sbarca invocano corridoi umanitari nel Mediterraneo, perché almeno i profughi delle guerre possano arrivare vivi. «L’Europa dei popoli, se c’è, faccia sentire la sua voce», ha detto ieri accoratamente padre La Manna del Centro Astalli, dove profughi e migranti vengono accolti. Sembra, però, che l’Europa sia in altre faccende affaccendata. Oppure, nicchia: che effetto avrebbe proteggere i migranti, se non di aumentare il numero di quelli che premono alle nostre porte? E il flusso che sfida il Mediterraneo assume silenziosamente i connotati di una migrazione epocale, di una pressione inesorabile dal mondo della fame e della guerra al mondo in cui, comunque, si vive.Anche questi ultimi tredici morti, sono il prezzo di un non voler vedere collettivo. L’Europa si stringe in sé, come una fortezza assediata, e guarda altrove. Ma la pressione non si ferma, come non si ferma, in natura, il flusso tra due vasi comunicanti e diversamente pieni. Perché, raccontò Hamed Godbari, uno dei 179 superstiti del naufragio del 2005 a Scicli, «Il mare in burrasca non mi ha fatto paura. Ho pagato tanti soldi per fare questa traversata, per lasciare il mio Paese e raggiungere l’Italia. Solo la morte, avrebbe potuto fermarmi».