mercoledì 14 dicembre 2011
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Quando accadono tragedie come quella di ieri a Firenze viene quasi istintivo parlare di follia. Uno sconosciuto ragioniere di 50 anni impugna una 357 Magnum e spara, e uccide. Tra la folla, tra la gente che fugge. Follia, ci si dice. Però quell’arma mira con precisione su dei neri, su quegli ambulanti africani che affollano i mercati delle nostre grandi città. Solo sui neri Gianluca Casseri fa fuoco. È un estremista di destra, uno scrittore con simpatie neonaziste, antisemite e razziste. Uno di quelli che mischiano teorie negazioniste dell’Olocausto con fantasmatici complotti semiti mondiali, ci aggiungono un po’ di Nietzsche e un po’ di Evola e perfino un’ombra di esoterismo, in una miscela paranoide: che individua il Male, il Nemico nel diverso, sia esso ebreo o nero di pelle, e si esercita a odiarlo.Generalmente è un odio teorico, fatto di parole. Poi, può succedere che un giorno scatti un corto circuito, e un ragioniere una mattina esca con la pistola. A caccia di nemici. A caccia di neri.Follia. In questa parola forse ci rifugiamo troppo, quasi che, quando la violenza esplode, altri strumenti per capire non avessimo. Follia: è come premere un tasto che cancella un’oscura ansia, e stabilisce che quell’uomo, il folle, niente ha a che fare con noi. Follia, eppure. Un po’ di avversione di fronte agli stranieri nelle nostre città non alberga anche in molti di noi? Certo, siamo, normalmente, educati ed equilibrati. Non faremmo mai del male. Solo un po’ di inquietudine, se su un autobus la sera ci accorgiamo che la maggior parte dei viaggiatori ha facce nere. «Tornatevene a casa vostra», ringhia qualcuno, ma a bassa voce. Che c’entra questo con un estremista che una mattina si sveglia e dal calderone dove sobbollono le sue idee assurde pesca la decisione di prendere la pistola? Qualcosa, un germe almeno di pensiero, c’entra. Perché in fondo alla radice di quella cieca avversione ai neri c’è una eclisse di umanità: c’è il non vedere che non esistono i "neri", ma ciascuna faccia è un uomo. Ciascuno è un uomo, sempre. Persino di più chi è venuto qui come un mendicante e chissà, alle spalle, con quali miserie. Ciascuno è un uomo, ma c’è in noi la tentazione di non vedere la storia di uomo scritta negli occhi dello straniero. E allora, non per consolarci di una tragedia, ma per ricordarci che non esiste fra noi solo questo sguardo cieco sull’altro, vogliamo ricordare che proprio ieri a Palermo una giovane giornalista, Elvira Terranova, ha ricevuto una medaglia d’oro al valore civile per avere contribuito a salvare, una notte dello scorso maggio a Lampedusa, centinaia di naufraghi di un barcone schiantatosi sugli scogli.Lei era lì, cronista dell’agenzia Adn Kronos, con la penna in mano. In teoria, neutrale testimone. Ma quella notte , racconta, «c’è buio fitto ma si intravedono gli uomini, le donne, i bambini che sono aggrappati alla barca e gridano. Sono terrorizzati. Io in quell’istante dimentico di essere lì per raccontare e mi precipito sugli scogli insieme ai finanzieri e agli altri, per dare una mano». E, «all’improvviso si affacciano dal barcone le mamme con in braccio i bambini. Sono disperate. Non sanno come arrivare a riva. Sono appena cinque-sei metri, ma la risacca riporta indietro la barca e la fa sbattere (..). Prendo i bambini che mi vengono passati in braccio. Li afferro al volo. Li prendo in braccio. Li porto fin su. Lontani dall’acqua».E poi, di cinque bambini non si trovano le madri. La giornalista ne prende in braccio uno, bagnato, tremante. Cerca e cerca fra i naufraghi sconvolti, finché sente una donna che si dispera: «My baby, my baby!». È lei, la mamma: Elvira le dà in braccio il suo bambino. (E chissà che occhi aveva, in quell’istante, quella madre).Che c’entra, la storia di Elvira Terranova con Firenze? C’entra. Come antitesi di possibili sguardi sull’altro, lo straniero. Lo straniero che, in lungamente covati veleni e paure, per il ragioniere di Firenze era diventato "il" male; non più uomo, ma altro da sé, bersaglio da abbattere. Mentre in quell’istante sulle coste di Lampedusa una giovane giornalista, e altri con lei, hanno riconosciuto con certezza, in quegli stranieri, degli uomini – dunque dei fratelli. Hanno sentito, nei pianti e nelle grida, se stessi; e d’istinto hanno accolto e abbracciato. E noi, ogni giorno, non siamo in bilico fra questi due sguardi? Il giorno dopo Firenze, una preghiera: che la memoria di ciò che ogni uomo è resti viva in Italia, e ci accompagni.
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