venerdì 29 giugno 2012
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La notizia che padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dician­nove anni fa dalla mafia, sarà proclama­to beato, non è soltanto un motivo di grande gioia per tutto il popolo cristia­no, in particolare per quello siciliano, ma acquista un profondo significato teolo­gico e pastorale, che vale la pena di sot­tolineare. Tra quanti auspicavano la beatificazio­ne del sacerdote siciliano, ve n’erano di coloro che vedevano in lui soltanto un e­roico operatore sociale e un instancabi­le paladino della legalità, prescindendo dalla prospettiva specificamente reli­giosa del suo ministero sacerdotale. Nel­la loro ottica, don Pino sarebbe stato un esempio di come la Chiesa possa ren­dersi benemerita accantonando o co­munque mettendo in secondo piano il suo annuncio di una verità salvifica – fonte, ai loro occhi, di intolleranza e di di­visioni –, per svolgere invece un servizio umanitario in cui tutti possono ricono­scersi. Sarebbe stata questa battaglia sol­tanto umana a determinare la sua mor­te. Riconoscendo che il martirio di don Pu­glisi è avvenuto in odium fidei, in odio al­la fede, la Congregazione per le cause dei santi ha messo in luce l’unilateralità di questa lettura della figura e dell’opera del prete di Brancaccio. Ciò che egli ha detto e fatto, ciò per cui è morto, non è mai stato altro che il Vangelo. Per questo è stato ucciso, proprio lui, che non era affatto il classico «prete anti-ma­fia » e che perciò non a­veva scorta e non veni­va considerato da nes­suno «in prima linea». Invece lo era, proprio perché svolgeva in tutta la sua pregnanza e il suo significato il proprio mi­nistero di presbitero. E­gli viveva la sua missio­ne al servizio dei più e­marginati, dei più debo­li, di tutti coloro che non hanno voce, non «seb­bene » fosse prete, o «accanto» al suo es­sere prete, ma 'perché' prete, in nome di quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini e povero tra i poveri, ha reso sa­cra la fragilità umana. E per questo – perché attingeva alle ri­sorse spirituali del Vangelo – l’attività di don Pino è apparsa ai mafiosi più temi­bile di tutte le battaglie per la legalità e per il progresso civile condotte da tanti, pur ammirevoli, promotori del bene co­mune e della giustizia. Uccidendolo, i mafiosi hanno in qual­che modo evidenziato l’equivoco in cui spesso sono caduti gli studiosi di Cosa nostra. Fondandosi su alcuni ritualismi e su altre somiglianze formali, essi l’han­no considerata come l’espressione di u­na forma di religiosità, sia pure distorta e criticabile dal punto di vista morale. La mafia, in realtà, col suo culto del potere per il potere, col suo rifiuto di ogni limi­te alla violenza, è una idolatria del nulla che si pone non come una deviazione e­tica, ma come la più radicale negazione di Dio. La sua opposizione al cristiane­simo non è di ordine morale, ma teolo­gico. E in quest’ottica essa ha ucciso non un difensore della legalità, non un ser­vitore dello Stato, ma un sacerdote che incarnava nella sua vita e nella sua ope­ra l’irresistibile forza salvifica del Vange­lo. Con la sua dichiarazione che don Pugli­si è stato ucciso «in odio alla fede», la Chiesa ha smascherato il falso dualismo tra impegno per Dio e impegno per gli uomini e additato un modello di pasto­re che, per amore del primo, porta agli al­tri la salvezza uscendo dal recinto del tempio e di un ritualismo autoreferen­ziale, immergendosi nella concretezza di una data storia e di una data società. Come ha fatto don Pino Puglisi, attiran­dosi l’implacabile ostilità di tutti coloro che, odiando Dio, odiano anche l’uomo.
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