A Firenze sparano sugli ambulanti di colore. A Liegi buttano granate sui passanti. E altri fatti, più o meno eclatanti, ci hanno ricordato in queste ore una verità nuda: noi odiamo. Siamo capaci di odiare. In casi tragici e spaventosi come i fatti di Firenze e di Liegi si chiama in causa la pazzia, il raptus. Come se questi gesti di follia finale, di odio fatale non crescessero giorno per giorno da un nutrimento dell’odio, da tante piccole progressive scelte avvelenate di odio. Le biografie dei colpevoli di questi gesti estremi spesso dimostrano una assidua, continua coltivazione dell’odio. Il fatto che in questi casi ci sgomenta, se non ci distraiamo subito in analisi sociopolitiche consolatorie, è così, infine, la capacità di odio che possiamo alimentare. Quando il suo magma erompe e si fissa in gesti micidiali, di sinistra e a volte meticolosa precisione, rimaniamo impressionati. Accade di fronte a fatti di cronaca come questi recenti, ma anche di fronte a fatti privati che ci toccano personalmente. Siamo disposti, per così dire, a comprendere l’invidia, la gelosia, l’avidità e tutta la spettacolare gamma dei vizi che ci troviamo tutti un po’ addosso. Poi quando appare lui, nudo e tremendo, come una pietra liscia senza appigli, restiamo senza parole. L’odio abita nel fondo del cuore dell’uomo, di noi uomini, come un antico demone addormentato. Ma sì, sappiamo odiare. È nelle nostre possibilità. Volere la fine dell’altro. Limitarlo. Violarlo. Arrivare a desiderarne la morte, l’eclisse, la scomparsa. La sofferenza. Certo, si possono indagare e accusare i molti elementi che sembrano alimentare atti o atteggiamenti di odio. C’è chi accusa il razzismo, la politica faziosa, la pressione di media, la facilità di armarsi, la incuria pubblica. Ma, a ben vedere, non sono queste stesse cause dell’odio azioni e atteggiamenti causate a loro volta da questo strano enigma che chiamiamo odio? Chiamare causa dell’odio il razzismo è come dire che l’odio causa odio. È indicare la politica faziosa e intollerante è lo stesso. E persino individuare possibili parti di causa in impalpabili consuetudini sociali non è forse rintracciare un odio pulviscolare, diffuso che poi si cristallizza in qualcuno nel gesto più evidente e tragico di odio? L’odio non ha un motivo preventivo che lo giustifichi. Non è conseguenza inevitabile di qualcosa d’altro. Va detto: è una scelta. L’odio – diciamolo accettando lo spavento di questa affermazione – è un atto libero. Uno degli atti più radicalmente liberi dell’uomo. Come lo è il bene. L’odio, come il bene, non ha giustificazione automatica. Quando Gesù dice che è facile amare l’amico, mentre il vero compito è amare il nemico, indica potentemente questa radicale libertà di noi uomini. Possiamo amare e odiare contrastando del tutto le circostanze. Non seguendo, per così dire, nulla di obbligatorio. Si odia e si ama del tutto liberamente. Questo è la spaventosa abissale misteriosità dell’essere umano. E la nostra possibile gloria, come vediamo in storie ordinarie o eccezionali di bene. Il cuore umano, ammoniva il Manzoni poco ricordato nelle celebrazioni del centocinquantenario italiano, è insondabile se non a Dio. L’odio è una mancanza di immaginazione, diceva Graham Green. Lo ricordano in un loro bel libro recente sull’enigma del male Andrea Monda e Giovanni Cucci. Solo chi si è privato di immaginazione può infatti guardare il volto di un uomo senza scorgervi nemmeno un tratto che richiami fraternità, comunanza. Una necessaria solidarietà. Siamo la società dell’immagine, non dell’immaginazione. Non a caso, sotto gli scintillanti favolosi manifesti o video di ogni genere di réclame si aggirano uomini armati, senza più immaginazione. Alcuni con armi visibili e feroci. Altri – molti più di quelli che pensiamo – con armi invisibili, ma non meno micidiali. Trasformare la libera scelta dell’odio in libera scelta del bene è un compito grande, specie in tempi di crisi. Si tratta di ricordare e mostrare che l’uomo che ama liberamente è più compiuto, più lieto e più realistico di chi cede all’odio. Il resto sono chiacchiere, per lo più banali, del giorno dopo.