Il lavoro è sempre al centro di ogni patto sociale. Attorno a esso si raccolgono sfide e dimensioni della vita in comune molto più grandi di quelle in gioco in qualunque altro mercato. Ecco perché dovremmo parlare di "mercato del lavoro" sempre con grandi precauzioni, perché se da una parte esiste, come in ogni mercato, una domanda e una offerta di lavoro, dall’altra il lavoro è molto più di una merce poiché quando manca non è possibile non solo acquistare le varie merci sul mercato ma neanche sognare e realizzare la vita che desideriamo vivere.Per queste ragioni il diritto al lavoro è uno di quei diritti sociali che vanno riconosciuti e proclamati anche quando sono incompleti, perché manca il corrispondente dovere in capo ad altre persone o istituzioni. Dovremmo, allora, quanto meno guardare con sospetto chi vede la disoccupazione e l’inflazione come due variabili dello stesso peso, perché i danni della disoccupazione sono molto maggiori di quelli prodotti dall’inflazione. Il lavorare o l’attività lavorativa è infatti una delle dimensioni più fondamentali e tipiche della persona. Lavorare dice agli altri e a noi stessi "chi" siamo e non solo "che cosa" facciamo, e in una civiltà sempre più povera di linguaggi perché povera di relazioni sociali, il mestiere diventa il principale se non l’unico linguaggio per raccontare agli altri e a noi stessi la nostra storia e la nostra identità. Il lavorare bene, allora, è qualcosa di intrinseco alla persona ben prima di essere la risposta agli incentivi del datore di lavoro. In questi giorni, invece, tutta l’enfasi del discorso sul lavoro cade sulla maggiore libertà da dare alle imprese di licenziare i lavoratori "fannulloni", senza domandarsi, ogni tanto, perché esistono i lavoratori fannulloni, se è vero che il lavoro è soprattutto una espressione della nostra umanità e identità, e che quando non si lavora bene si sta male, dentro e fuori le imprese. A questo proposito è molto interessante una serie di studi recenti che arrivano dalle scienze economiche e sociali, che ci mostrano alcuni fenomeni troppo taciuti nel dibattito pubblico. Innanzitutto dai dati empirici sui lavoratori di ogni professione (dai lavori di pulizia fino ai professori universitari) emerge che il lavoro produce frutti buoni per l’impresa quando è dono, quando è eccedente rispetto alla lettera del contratto. Con gli strumenti del contratto di lavoro posso definire quando il lavoratore entra ed esce dall’ufficio o dalla fabbrica, con i controlli e le sanzioni posso, forse, verificare se lavora o se chatta su Facebook. Ma nessun contratto o nessun controllo potrà mai far sì che il lavoratore-persona metta tutta la sua creatività, passione ed entusiasmo in quello che sta facendo; creatività, passione ed entusiasmo che sono le cose più importanti che una impresa cerca da un lavoratore, ma che non può comprare con il contratto né ottenere con controlli e sanzioni, perché queste dimensioni essenziali per il successo dell’impresa possono soltanto essere liberamente donate dal lavoratore. Larga parte del mondo dell’economia e dell’impresa non è capace di vedere questo dono, e se lo intravvede ne ha paura e lo rigetta, perché il dono lega e crea debiti emotivi fra le persone non compensabili con moneta. L’impianto organizzativo delle nostre imprese è, infatti, concepito proprio per impedire ai lavoratori di praticare l’eccedenza del dono e immunizzarsi così da esso, definendo fin nei minimi dettagli mansioni, prescrizioni, divieti che finiscono per ingessare le nostre organizzazioni e impedire la cooperazione vera che non è solo una somma di interessi ma un incontro di doni. D’altra parte l’impresa capitalistica, sempre più centrata sulla massimizzazione di profitti di breve periodo, anche volendo non ha né le categorie né il linguaggio per riconoscere il dono, sebbene ne abbia un bisogno vitale.Ecco allora che alcuni studiosi francesi, fra cui Norbert Alter ed Anouk Grevin, stanno mostrando che i comportamenti opportunisti dei lavoratori "fannulloni" sono spesso (non sempre) risposte frustrate di fronte alla mancanza di riconoscimento e riconoscenza da parte dei manager, che non vedono il dono presente nel lavoro. Un discorso, questo, che può essere facilmente esteso dalle imprese alla politica, dal lavoro alle virtù civili e alle tasse. La maggior parte dei cittadini e dei lavoratori, credo quasi tutti, se messi nelle condizioni adeguate cercano di fare le cose bene: quando non lo fanno, prima di condannarli e licenziarli dobbiamo domandarci il perché. Ci accorgeremmo, forse, che alcuni lavoratori sono effettivamente fannulloni, ma probabilmente sono molti meno di quanto pensiamo. E poi, soprattutto, dovremmo far sì che il management e le istituzioni creino quelle condizioni per conoscere e riconoscere il lavoro, perché sono i lavoratori, ben prima della finanza e della tecnologia, la principale ricchezza di ogni impresa e di ogni società.
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