I discorsi più alti e veri che si levano dalla terra sono quelli dei poveri, le cui carni ferite contengono una verità che i trattati dei professori non possono conoscere. È la verità di Giobbe, che dà forza ai suoi discorsi di maledizione e di imprecazione. Le sue grandi domande senza risposta sono molto più convincenti e vere delle risposte senza grandi domande degli esperti del suo tempo e del nostro. Se oggi fossimo capaci di ascoltare le domande, spesso mute, dei poveri feriti dalla vita e dalla nostre , potremmo avere qualche barlume di luce per rischiarare le tante crisi del nostro tempo, che non capiremo finché non reimpareremo a leggere le parole incise nelle pelle delle vittime. Dopo il Prologo, con il capitolo tre entriamo nel cuore del poema di Giobbe, costruito sui suoi dialoghi con gli amici, con se stesso, con la vita, con Dio. «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere» (2,11-12). Tutto fa pensare che sono amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Amici che non lo riconobbero da lontano, perché Giobbe, per le pene che pativa, stava diventando altro, troppo lontano dal primo Giobbe, e da loro. È Giobbe a prendere per primo la parola. Maledice la vita con parole sconcertanti e scandalose: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce … Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono?» (3,1;11-12). La sventura attuale gli fa guardare indietro e maledire la sua origine. Poi gli fa agognare la fine, desiderare di giungere finalmente liberato nel regno dei morti, dove (3,18-19). I patriarchi della Genesi erano giunti alla morte “sazi di giorni”; Giobbe, sazio di dolore, desidera solo la morte. Gli amici di Giobbe si impauriscono e si scandalizzano delle sue parole. E così il primo degli amici, Elifaz, rompe i sette giorni di silenzio e di lutto, e prende la parola: «Sei stato maestro di molti e a mani stanche hai ridato vigore; le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. Ma ora che questo accade a te, ti è gravoso; capita a te e ne sei sconvolto» (4,3-5). Elifaz sembra rimproverare a Giobbe una mancanza di coerenza morale. Giobbe era stato un maestro di fortezza, aveva consolato e aiutato altre persone che si trovavano in una situazione simile a quella nella quale è precipitato lui; ma ora non riesce ad utilizzare per se stesso quelle risorse morali che aveva per anni donato agli altri. Quando si cade in una sventura vera, sono di poco aiuto i princìpi etici e i valori sui quali avevamo costruito la nostra morale nei tempi della prosperità, che avevamo raccontato nei convegni o scritto sui libri. Il vento impetuoso della disgrazia, insieme ai beni, ai figli, alla salute spazza via anche le certezze morali di ieri. Sta qui la difficoltà delle prove vere e grandi della vita. La notte avvolge tutto, e l’anima non possiede più né un vocabolario né una grammatica per scrivere frasi di vita. Le parole del tempo della gioia e delle certezze appaiono ora come menzogna, come inganno, non verità. Finché non si raggiunge questa povertà assoluta, siamo ancora nella terra dei ricchi. Ma è da questa delusione radicale che può iniziare una nuova vita, tutta diversa, certamente più vera. I maestri di vita spirituale sanno che è al culmine di questa notte (che può durare anche decenni) che può cominciare la vera vita spirituale, della quale i tempi del dono e della luce erano stati soltanto la sala d’attesa dove ci eravamo trastullati con balocchi, e con qualche idoletto. Ma Giobbe tutto questo non lo sa, non lo può e non lo deve sapere – e noi dobbiamo essere ignoranti come lui, se vogliamo seguirlo nella sua esperienza radicale, e provare a rinascere. Non stupisce allora che la logica del (bel) discorso di Elifaz, che pur contiene molte verità della migliore etica del tempo (la vita virtuosa porta, prima o poi, alla felicità), non è di alcun conforto a Giobbe. E così, dopo aver ribadito la profondità dell’abisso nel quale è sprofondato, Giobbe inizia una amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sulla solitudine dell’esistere: (6,14-19). Gli amici svaniscono nel tempo della sventura. Li cerchiamo, e come una carovana che lascia la pista battuta nel deserto in cerca di quelle oasi che in passato erano ricche di acque dolci, andiamo da loro arsi dalla sete del dolore e della solitudine, ma dopo la lunga corsa troviamo solo alvei vuoti di torrenti pieni di sassi (6,19-22). Siamo soli nei grandi attraversamenti della vita; in mezzo a quelle acque tumultuose nessuna compagnia può affiancarci e pareggiarci. Nemmeno la mano più cara che stringerà la nostra nell’ultimo guado della vita potrà seguirci fino alla fine della lotta, quando, con la sola nostra mano mendicheremo la benedizione finale. Giobbe continua il suo combattimento con la vita. Non smette di cercare e chiedere nuove ragioni, sulla morte di quelle antiche. Da questi primi dialoghi emerge un Giobbe forte nella sua debolezza estrema. Non vede più le coordinate del cammino, è smarrito. Nelle sue parole c’è però una forza di verità assente in quelle dei suoi dotti interlocutori. La sua è la sapienza di chi vive concretamente sulle proprie carni la sventura, una “competenza” unica e intrasmissibile che nessun esperto fuori dall’esperienza può avere. La forza di Giobbe sta nella sua condizione di vittima, che dà verità alle parole che dice. È la sua carne ferita che dà forza alla sua parola. La carne che diventa verbo. Il diluvio della Genesi aveva annullato l’ordine della creazione, ri-confuso luce e tenebre, acqua e terra; il diluvio che si è abbattuto sulla vita di Giobbe ha cancellato ogni ordine etico, trasformato il suo cosmo nel caos. Giobbe era giusto come Noè, ma mentre Noè fu salvato da Elohim, Giobbe è la vittima delle grandi acque. Sommerso e inondato da un diluvio ingiusto, non vede più la luce, l’armonia, la felicità, la bellezza e l’ordine della vita. E la maledice, in un canto di maledizione radicale e scandaloso, senza però mai arrivare a maledire Dio (anche se arriva sulla soglia). Ma se leggiamo il suo poema con “l’intelligenza delle scritture”, facciamo una scoperta sbalorditiva: il suo canto di maledizione è anche la costruzione di una nuova e diversa arca di salvezza. Nell’arca di Giobbe non salgono i suoi figli e gli animali, ma tutti i disperati, gli sconsolati, i depressi, gli abbandonati, i falliti, gli scomunicati, tutte le vittime inconsolabili e inconsolate della storia. È così che la Bibbia ci ama e ci salva, paradossalmente e realmente. Come, analogamente, ci salvano la grande poesia e la grande letteratura, che riscattano e salvano il principe Myskin, Cosette e Jean Valjean, il “pastore errante dell’Asia”, mentre li raggiungono, li incontrano, abitano la loro sventura. La “resurrezione” di questi miserabili arriva quando vediamo, descriviamo, amiamo le loro sofferenze. Se non fosse così le nostre poesie, l’arte e i capolavori letterari sarebbero solo finzione, e non conterrebbero nessuna verità e nessuna salvezza. E invece non è così, lo sappiamo e lo sentiamo tutti i giorni, quando nei dolori grandi e nelle sventure della vita continuiamo ad essere amati dai poeti e dalle scritture, che ci prestano i loro salmi e le loro parole per accompagnare le nostre notti mute. E ci accompagnano e ci amano anche quando non possiamo leggere né le poesie né la Bibbia, perché non le capiamo, non abbiamo mai imparato a leggere, o perché le abbiamo dimenticate. L’autore del libro di Giobbe ha incluso tutti i vinti e i disperati nel libro della vita e di Dio solo perché ha pronunciato le loro stesse parole. La resurrezione è dentro la passione, l’abbandonato è già risorto. Sta anche qui la speranza non vana che nella storia, questa infinita processione di innocenti sofferenti, possa essere iscritta una giustizia, misteriosa ma vera. Tutti possiamo entrare nell’arca di Giobbe. L’arcobaleno dell’alleanza si estende fino a colorare tutto il cielo e tutta la terra.l.bruni@lumsa.it
La sofferenza vista e compresa dell’innocente è inizio di resurrezione
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