mercoledì 29 ottobre 2014
Londra capofila dell'iniziativa di prevenzione del terrorismo.
di Lucia Capuzzi
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«Non c’è un metodo standard. Dipende da chi hai di fronte. Alcuni si avvicinano al jihadismo per ragioni politiche, altri per questioni intellettuali o per una pulsione emotiva. Devi capire quale molla spinge chi hai di fronte per instaurare il contatto». Rashad Ali, 34 anni, lo sa per esperienza. Anche lui, una decina di anni fa, è stato incantato dalle “sirene del fondamentalismo”. A 15 anni, questo giovane del nord dell’Inghilterra, appartenente a una famiglia musulmana moderata e ben integrata nella comunità, è entrato a far parte di Hizb ut Tahrir, organizzazione islamista radicale anche se ufficialmente fuori dalla galassia di al-Qaeda. «Perché? Ero affascinato dalla sua visione netta del mondo. Aveva idee chiare su tutto: fede, secolarismo, capitalismo. Non dovevo fare altro che seguirle». Niente domande, dubbi, inquietudini. Al pensiero, l’ideologia estremista sostituisce una serie di affermazioni, spesso semplici come slogan, a cui gli adepti devono scrupolosamente attenersi. «All’inizio funziona. Mi ci è voluto tempo per capire che la lotta, spesso violenta, per la creazione di uno Stato retto dalla sharia non ha niente di religioso. È un delirio totalitario. Un obbrobrio immorale per ogni credente. Cercano di farti odiare il tuo Paese. Ma ora so che si può essere islamico e inglese».  Rashad non si accontenta di tenere tale consapevolezza per sé. Forte del proprio vissuto, ora, il 34enne è uno degli esperti della rete Channel, a sua volta parte di Prevent, il programma britannico per il recupero degli aspiranti jihadisti. In gergo tecnico, Rashad è un “de-radicalizzatore”: quando Channel individua ragazzi imbevuti di ideologia islamista e pronti a “fare il salto” nell’abisso della violenza, il suo compito è avvicinarli e “riportarli indietro”, lontano dal precipizio. Lanciato nel 2003, Prevent è uno dei primi “pacchetti strutturati” per la riabilitazione dei jihadisti non ancora passati all’azione. L’obiettivo è “riacciuffarli in tempo” prima che lo facciano. Soprattutto i più giovani che hanno maggiori possibilità di “guarigione”. Sulla stessa linea, si muovono le esperienze create nell’ultima decina d’anni in vari Paesi del nord Europa, in particolare Olanda, Danimarca e Norvegia. Perché il piano funzioni è indispensabile la collaborazione di quei centri di formazione e aggregazione – scuole, moschee, circoli culturali e ricreativi, squadre sportive – a contatto con i “soggetti a rischio”. Non solo immigrati di seconda generazione: c’è un numero crescente di europei “autoctoni” affascinati dal radicalismo islamico. In molti casi si tratta di jihadisti autodidatti: non frequentano la moschea ma apprendono i rudimenti dell’ideologia su siti e blog estremisti. Un percorso spesso rapido, i cui segni possono, però, essere colti da chi sta loro intorno. Questi ultimi – e qui si gioca la fattibilità dei programmi di recupero –, tuttavia, devono essere certi che la loro segnalazione non si tramuti in delazione. «È difficile che un insegnante denunci il proprio studente o un padre il figlio – afferma Lorenzo Vidino, esperto internazionale di sicurezza e terrorismo, con una lunga esperienza nell’analisi dei programmi di deradicalizzazione per conto di vari governi e, al momento, di base all’Ispi di Milano –. Perché il sistema funzioni, la struttura che riceve le informazioni deve essere separata dalla centrale di polizia. L’obiettivo non è far arrestare il presunto jihadista ma aiutarlo a uscire dal tunnel. Esattamente come nel caso della tossicodipendenza». E proprio come per le droghe, il recupero è lungo, difficile e mai definitivo. Per gli esperti, però, i risultati ottenuti sono incoraggianti. Ogni anno, i vari programmi prendono in carico migliaia di casi: al solo Prevent arrivano 50 segnalazioni alla settimana. Di questi, tra il 60 e il 70 per cento riesce a cambiare strada. Con gran sollievo delle forze anti-terrorismo, sgravate di una mole considerevole di lavoro e libere di concentrarsi sui casi più gravi. La de-radicalizzione, infatti, non sostituisce le normali attività investigative, bensì le affianca.  Torniamo all’esempio di Prevent. Il primo passo consiste nel creare una rete di fiducia, in modo che la gente si senta libera da scrupoli nel segnalare. Poi viene la fase due: l’abboccamento e il tentativo di recupero. A occuparsene è il “mentore” o “coach”. Rashad entra in gioco a questo punto. Avvicina il soggetto, instaura con lui un rapporto di fiducia e, forte del suo percorso, gli fa intravedere le crepe della monolitica ideologia jihadista. L’approccio del giovane è in prevalenza religioso-teologico: il radicalismo è una perversione del vero islam. Altri “mentori” utilizzano un metodo di tipo psicologico o sociologico. I coach hanno le più svariate competenze, alcuni sono assistenti sociali, terapisti, imam, altre volte il “de-radicalizzatore” è un familiare. Peculiarità dei programmi olandesi è la dimensione comunale delle iniziative. Amsterdam ha creato il suo nel 2004, per pura coincidenza due settimane dopo l’assassinio di Theo Van Gogh. La non prevista concomitanza degli eventi ha situato, fin dall’inizio, la Municipal Information House on Radicalization – il quartier generale del programma – in “prima linea”. Con esiti soddisfacenti. L’esempio più citato è quello di X – la tutela della privacy è fondamentale –, esponente del gruppo responsabile dell’omicidio del regista. «Se è “guarito” – raccontano fonti interne – è merito di un assistente sociale caparbio, di un imam moderato e di un pellegrinaggio alla Mecca». Durante il viaggio, X stava per essere schiacciato nella calca, quando è stato salvato da uno sciita, il nemico per antonomasia nella narrativa jihadista. È stato l’inizio della guarigione dal “virus” estremista. «È potuto arrivare a quel punto, però, grazie al lavoro con i suoi “coach”: l’assistente sociale e l’imam».   Oslo predilige un approccio non teologico, imperniato sulla costruzione di una cultura della cittadinanza in chiave norvegese. Mentre la Danimarca si è concentrata, dal 2008, su tre aree sensibili: Copenhagen, Aaehus e Odense. In ognuna ha sviluppato programmi ad hoc, spesso con il finanziamento dell’Unione Europea. E l’Italia? Finora – anche per il minor impatto della radicalizzazione sulle seconde generazioni – non ha sviluppato iniziative mirate. «Gli operatori dell’antiterrorismo, però, ne segnalano l’utilità e la politica inizia ad ascoltarli – afferma Vidino –. Di recente, il ministro Alfano ha parlato dell’opportunità di introdurre strategie di de-radicalizzazione con il supporto di insegnanti, assistenti sociali e imam moderati. E i deputati Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso stanno lavorando a progetti legislativi in materia». L’“effetto Stato islamico” sta accelerando i tempi. E l’idea di una versione italiana di Prevent non sembra più così ardita.
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