La parola profitto (bèçá) fa la sua comparsa nella Bibbia per la vendita di un fratello: «Quale profitto se uccidiamo nostro fratello?» (Genesi 37,26). Così, dopo averlo gettato nella cisterna, i fratelli diedero retta a Giuda, e «per venti sicli di argento vendettero Giuseppe» (37, 28) a dei mercanti di passaggio. Era il prezzo di uno schiavo o di un paio di sandali, venti volte meno del prezzo che Abramo pagò agli Ittiti per la tomba per Sara. Così, Giuseppe, il fratello minore, fu venduto come uno schiavo agli Ismaeliti, i discendenti del figlio di Abramo e Agar, il ragazzo rifiutato da Sara e scacciato anch’egli nel deserto. Il denaro e il profitto ci si presentano strettamente legati alla morte. Entrano in scena come un mezzo per evitarla, ma in realtà continuano a starle molto vicino. Le grandi civiltà sapevano molto bene che il territorio del profitto confina da un lato con quello dell’amore e della vita, ma dall’altro con quello della morte e del peccato; e che i paletti di confine sono mobili e gli attraversamenti nelle due direzioni molto facili e frequenti. La nostra civiltà, invece, è la prima che nel suo insieme ha dimenticato l’esistenza del confine sinistro della terra del profitto; e così ha dimenticato che «il guadagno del giusto serve per la vita, il salario dell’empio serve per il peccato» (Proverbi, 10,16). Ci sono - ieri e oggi - mercanti che comprano e vendono soltanto «adragante, balsamo e ladano» (37,25); ma ce ne sono altri, spesso mescolati sulle stesse piazze, che insieme alle merci comprano e vendono "fratelli", per venti sicli o meno. Dopo che la carovana di mercanti di merci e di fanciulli ripartì in direzione dell’Egitto, i fratelli «presero la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono quella lunga tunica a loro padre… Egli la riconobbe e disse: "È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato! Giuseppe è stato sbranato!"» (37,31-33). Siamo dentro uno dei passaggi più intensi della Genesi: «Allora Giacobbe si stracciò le vesti, si mise un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto per suo figlio per molti giorni. … E disse: "Io voglio scendere in lutto nel regno dei morti [shèol] da mio figlio"» (37,31-35). Versetti di una bellezza e una umanità immensi, che rendono eterno e sacro questo speciale tipo di dolore di padre, per il quale - a differenza dell’orfanezza e della vedovanza - non esiste una parola specifica, forse perché indicibile. Il paradiso deve esistere, fosse solo per rendere giustizia a questi dolori senza nome, per far tornare immacolate le vesti lunghe e variopinte dei figli. Poi Giuda «si separò dai suoi fratelli» (38,1), e - forse per allontanarsi da quella tunica e da quel sangue - si spinse nella terra dei Cananei, dove diventa protagonista, con sua nuora Tamar, di una delle storie più belle della Genesi. Tamar, cananea, rimane vedova dopo aver sposato Er, il primogenito di Giuda. Per la cosiddetta legge del levirato, Giuda chiede al suo secondo figlio Onàn di dare una discendenza a Tamar. Ma anche Onàn, dopo essersi rifiutato di adempiere al suo dovere verso Tamar, muore (38,6-9). A questo punto in Giuda si insinua il pensiero che possa essere Tamar la causa della morte dei suoi due figli (38,11) - era comune in molte culture antiche, e ancora oggi in alcune regioni dell’India o dell’Africa, credere che le vedove portassero sfortuna e maledizioni, e quindi venivano discriminate e maltrattate. E le dice: «Vedova ritorna alla casa di tuo padre, fino a che Shelàr, mio figlio, sarà diventato grande» (38,11). Passa il tempo, Shelàr diventa grande, ma Giuda non mantiene la sua parola e non rispetta la legge del levirato, e Tamar continua a restare sola e senza figli. A questo punto arriva il colpo di scena. Tamar viene a sapere che Giuda è di passaggio dalle sue parti, lontano dalla sua tribù. Si toglie l’abito vedovile (38,14), si copre con il velo per non essere riconosciuta dal suocero, e si mette in sua attesa in un crocicchio della strada. Giuda la vide, «la reputò una prostituta» (38,15), e come prezzo promette a Tamar l’invio di un capretto. Ma la nuora, per concedersi a Giuda, vuole un pegno: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano» (38,18), la "carta di identità" dei signori di quei luoghi. Tamar resta incinta. E quando Giuda tre mesi dopo viene a sapere che sua nuora aspetta un bambino (che poi in realtà saranno due gemelli: Pères e Zérah: 38,29-30), la condanna a morte. Mentre la conducono verso il rogo, Tamar porta a termine il suo piano: «Dell’uomo a cui appartengono queste cose [il sigillo, il cordone e il bastone] io sono incinta» (38,25). «Giuda li riconobbe. Allora disse: "Ella è nel giusto più di me, in quanto io non l’ho data a Shelàh, il mio figlio"» (38,26). Con questo ultimo atto di responsabilità Giuda riscatta anche se stesso: avrebbe potuto esercitare il suo potere di uomo e di capo clan per smentire Tamar, una donna indifesa. Ma non lo fece, e, almeno in questo atto, fu uomo giusto.