I compiti variavano di continuo. In base alla necessità o al capriccio del momento: zappare, dar da mangiare agli animali domestici, pulire la casa, fare la legna. Ma anche chiedere l’elemosina nella città più vicina. In pratica, tutto ciò che il “padrone” ordinava. L’unica risposta ammessa era: “Subito”. Ogni tentennamento faceva scattare, inesorabile, la punizione: botte, bruciature, tagli, digiuni prolungati, docce gelate o bollenti. Spesso, poi, come segno di sottomissione, erano costretti a lavorare in catene. Prigionieri, a tutti gli effetti. Peggio: schiavi. Decine e decine di esseri umani – adulti e bambini – ridotti in cattività, per anni.
Non è la trama di una versione del romanzo “Radici” sulla tratta degli africani negli Usa. Né il sunto di un libro di Dickens sullo sfruttamento nell’Inghilterra vittoriana. È il racconto di quanto la polizia si è trovata di fronte quando ha fatto irruzione a Berevoiesti, nel sud della Romania. “Il villaggio degli schiavi” l’ha ribattezzato la stampa locale. Una comunità fra le montagne di poco più di 3mila abitanti, nel cuore della Romania rurale. Là – in un “frammento” di Unione Europea – per oltre otto anni, una banda criminale rom ha rapito bimbi, adolescenti e minori. Una quarantina in tutto, la maggior parte con disabilità fisiche o mentali sui quali i delinquenti avevano costruito un fiorente business. Almeno, così, pare dai primi beni sequestrati dagli agenti: oltre 56mila dollari in contanti e un chilo d’oro.
In genere, le vittime venivano individuate e catturate in spazi pubblici, vicino a chiese o stazioni dove dormivano. “Bersagli” facili: poveri, senza tetto, emarginati, di cui difficilmente qualcuno avrebbe chiesto notizie. Poi, li portavano a Berevoiesti dove lo sfruttamento era minuziosamente pianificato e portato avanti. In un inquietante silenzio. Per otto, lunghi anni, nel villaggio, nessuno ha denunciato l’insolita situazione alle autorità. Il sindaco, Florin Bogdan, 29 anni, al secondo mandato, ha detto di aver fatto una segnalazione l’anno scorso. A quel punto sono scattate le indagini, fino al blitz. Ben 160 agenti dell’Unità contro il crimine organizzato e il terrorismo (Diicot) sono arrivati a Berevoiesti nella notte tra mercoledì e ieri e hanno setacciato le case dei sospetti. Là hanno trovato tre adulti e due bambini – di 10 e 12 anni – che sono stati liberati e portati in una struttura protetta. Dai racconti di questi ultimi sono emersi i primi, inquietanti dettagli della prigionia: agli “schiavi” veniva gettato il – poco – cibo sul pavimento o costretti a combattere per “allietare” le serate dei “padroni”. Si sospetta, perfino, che alcuni siano stati stuprati. «È choccante ascoltare simili testimonianze nel XXI secolo », ha dichiarato Valentin Preoteasa, procuratore capo di Pitesti, capoluogo del distretto di Arges, dove si trova Berevoiesti. Finora la polizia ha arrestato 20 persone per riduzione in schiavitù. Per tale delitto, rischiano fino a 20 anni di carcere. Altri 90 sono sotto indagine.
Oltre l’orrore, il “caso Berevoiesti” ha “sbattuto” in faccia, alla Romania e al mondo, una piaga spesso invisibile, quella della tratta di esseri umani. Bucarest è, per l’ultimo rapporto del Dipartimento di Stato sul fenomeno, uno dei principali hub in Europa di nuovi schiavi. Secondo le stime di Global Slavery, nel Paese se contano almeno 80.200, circa lo 0,4 per cento della popolazione. Di questi – afferma il ministero dell’Interno romeno – meno della metà, il 44 per cento, vengono sfruttati dalle organizzazioni criminali in patria. «Li obbligano i bimbi a mendicare, le donne vengono rinchiuse nei club a luci rosse, mentre gli uomini sono costretti a lavorare in vari ambiti, dall’agricoltura all’edilizia», dice ad Avvenire Michelangela Barba, dell’associazione Ebano, impegnata a Bucarest nella sensibilizzazione contro il commercio di esseri umani, in collaborazione con Adpare, e in Italia nel riscatto delle vittime. L’altra metà degli “schiavi” – circa il 55 per cento – viene, infatti, “esportata” nel resto dell’Unione. In particolare, le donne, giovani e giovanissime, sono “rivendute” nel mercato europeo del sesso a pagamento. Buona parte delle vittime di sfruttamento sessuale in Italia, tra i 16 e i 17 anni – secondo uno studio di Save the Children – viene dalla Romania. Come pure gran parte dei “baby mendicanti”. I l proliferare della tratta è un tragico effetto collaterale della difficile situazione sociale del Paese. Quest’ultimo, ancora, a quasi trent’anni dalla fine della dittatura di Nicolae Ceausescu, continua a procedere a “due velocità”. Alla Romania emergente, con un tasso di crescita superiore al 4 per cento e la disoccupazione sotto il 7, si contrappone quella degli “scartati”.
Una nazione nella nazione, di cui fa parte – in base all’ultimo rapporto di Eurostat – il 28,5 per cento della popolazione. Sono oltre sei milioni i romeni poveri. Se si sommano anche i lavoratori incapaci di arrivare a fine mese con il magro salario, si supera il 40 per cento, come ha rilevato la Caritas. Solo nella capitale – dichiara la Fondazione Parada – 7mila esseri umani, 2mila minori e 5mila adulti, sopravvivono dormendo nelle strade o, più spesso, nei cunicoli sotterranei scavati dalla grande rete per il riscaldamento. Quasi tutti tengono a bada i morsi della fame con la “colla”. Così viene chiamata la Aurolac, una sorta di vernice venduta illegalmente per pochi spiccioli in bustine di plastica e inalata. La droga dei poveri, con conseguenze devastanti sul cervello. Sono questi disperati il “serbatoio umano” che alimenta la tratta. «Qualcosa, però, sta lentamente migliorando. La gente sta acquisendo maggiore consapevolezza della schiavitù moderna e la rifiuta», afferma Barba. Merito anche dell’impegno di tante organizzazioni, religiose e laiche. E di coraggiosi volontari. Come il clown Miloud Oukili che, dal 1992 insieme alla Fondazione Parada, porta avanti un bizzarro progetto di riscatto per i bambini di strada: insegna loro le arti circensi. In 24 anni, il franco-algerino è riuscito a trasformare alcune decine di piccoli di strada in giocolieri, acrobati, prestigiatori. E, ora, quanti erano destinati a restare invisibili, si mostrano, orgogliosi della loro arte, nelle piazze del Paese.