venerdì 2 ottobre 2015
Natalità e immigrazione: perché una svolta è necessaria. Ricerca Usa mostra che la crisi condiziona la maternità anche nel lungo periodo. (Massimo Calvi)
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Due ricercatori americani di Princeton, Janet Currie e Hannes Schwandt, hanno calcolato quanti bambini nasceranno in meno negli Stati Uniti nei prossimi anni a causa della Grande Recessione: 400mila. Il legame tra disoccupazione e natalità è noto, ma il contributo di questa ricerca (Short and Long-Term Effects of Unemployment on Fertility) apre una strada poco esplorata: dimostra che le difficoltà economiche hanno un effetto negativo sulla maternità anche dopo molto tempo. In sostanza chi è restato escluso dal mercato del lavoro attorno ai 20 anni avrà più probabilità di trovarsi senza figli anche a 40. Donne con una carriera dimezzata, ma anche con una maternità negata. Non sarebbe corretto applicare le conclusioni dello studio americano alla situazione italiana, per le troppe differenze tra i due Paesi, tuttavia il problema della minore natalità a causa della crisi, e dei figli e delle madri che mancano oggi e mancheranno tra 20 anni, alimenta molte inquietudini. L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa, secondo al mondo dopo il Giappone. E con un tasso di fecondità tra i più bassi sul pianeta si candida a un futuro quantomeno problematico: una popolazione che non si riproduce indica una scarsa fiducia nel futuro, mentre la dinamica di sviluppo del Paese è destinata ad avvitarsi in un circolo vizioso.   «Insieme al dato dell’occupazione – ha scritto il cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione al Consiglio Permanente Cei del 30 settembre – vi è un altro indicatore che, almeno nei Paesi occidentali, rileva lo stato di salute di una società: i figli. (...) La natalità è la prova più evidente e sicura dello sviluppo e del futuro». Dopo anni di depressione, in Italia si incominciano a notare timidi segnali di ripresa. L’occupazione e il Pil, merito delle recenti riforme varate dal governo, mostrano cenni di vitalità, anche se le condizioni dell’economia globale, tra i problemi della Cina e le incognite del caso Volkswagen, continuano a restare molto incerte. Il punto è che se dovessimo misurare le prospettive dalla dinamica della natalità, allora ci sono poche ragioni per essere ottimisti. L’Italia, con un tasso fermo a 1,39 figli per donna e con il 21,4% della popolazione oltre i 65 anni, è un osservato speciale: con questa dinamica della popolazione i costi sanitari e pensionistici diventeranno insostenibili.   L'attenzione della politica in una situazione di questo tipo è fondamentale. La promessa del premier Matteo Renzi di introdurre nuove misure di contrasto alla povertà infantile, il Family Act di Alleanza Popolare, il disegno di legge delega dei senatori Pd che mira a riunire in un quadro coerente le misure per incentivare la natalità e incrementare i sostegni ai figli a carico, dimostrano che il problema non è sottovalutato (si veda box in pagina). Cambiare è necessario, ma per invertire il ciclo negativo della fiducia è bene che la prospettiva sia molto ambiziosa. Un solo esempio: si pensi a cosa vorrebbe dire far entrare l’Italia in Europa introducendo quello che in quasi tutti gli altri Paesi è già in vigore: un assegno fisso per il mantenimento dei figli minorenni, indipendente dal reddito. Una misura capace di aumentare considerevolmente le dotazioni per le famiglie povere, ma che non escluderebbe il ceto medio configurandosi come alternativa alle detrazioni già riconosciute. Tecnicamente si potrebbe arrivare ad avere, a puro titolo di esempio, un assegno da 250 euro al mese per ogni figlio minore. Senza costi aggiuntivi per lo Stato. Come? Attualmente la spesa per i 'sussidi' ai figli è così distribuita: 10,5 miliardi l’anno per le detrazioni fiscali per i minori, non riconosciute a chi ha redditi bassi o nulli; 6,5 miliardi per gli assegni al nucleo familiare, pagati solo ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e non ai disoccupati né ai lavoratori autonomi; 800 milioni per l’assegno a chi ha 3 o più figli minori. Il totale di queste misure vale circa 20 miliardi. Se si decidesse di destinare i 10 miliardi del bonus da 80 euro a questa nobile missione, la dotazione salirebbe a 30 miliardi l’anno. Ora, dato che i minorenni in Italia sono 10 milioni, ecco 3.000 euro all’anno per ogni figlio.   È solo un’idea, uno spunto per riflettere su risorse e possibilità. Qualcuno potrebbe eccepire per l’assenza di limiti di reddito. In realtà di questi stanziamenti beneficiano in parte già oggi le fasce medie, mentre l’assegno aumenterebbe le dotazioni riconosciute ai nuclei bisognosi, e oltretutto finirebbe nelle tasche anche di disoccupati e incapienti, oggi esclusi. Si potrebbe poi rilevare che il bonus da 80 euro non può essere snaturato nella sua funzione, quella di rilanciare i consumi. Eppure un assegno ai figli dovrebbe avere un impatto molto più forte sui consumi e sugli investimenti delle famiglie di quanto non abbia avuto il bonus, che ha escluso le fasce deboli, cioè quelle più capaci di incidere sui consumi, e premiato i lavoratori dipendenti a reddito medio. In Europa misure di questo tipo, che hanno la forza di imporre una priorità e determinare culturalmente un contesto favorevole alla famiglia con un impatto molto netto, sono assai diffuse e non procurano alcuno scandalo. In Francia, in aggiunta alle detrazioni, si ricevono ad esempio 130 euro al mese per due figli, 295 per 3, 470 euro per 4… In Germania arrivano 184 euro a figlio fino a 2 bambini, 190 per il terzo, 215 per il quarto. Dall’Austria all’Olanda, dal Belgio alla Danimarca, in pressoché tutti i maggiori Paesi esiste la pratica dell’'assegno universale', in aggiunta ad altri sostegni più specifici.   Paesi in declino di natalità come l’Italia non hanno molte opzioni se vogliono incidere positivamente sul proprio futuro, invertendo il ciclo negativo e svincolandosi dalla dipendenza delle riprese altrui. Le strade possibili sono due: una prevede di trovare un modo efficace per convincere le donne ad avere figli (e poi tornare al lavoro); l’altra passa da una seria politica migratoria. Che si voglia o no l’Italia, come il resto d’Europa, ha un disperato bisogno di immigrati, di popolazione attiva. Il punto non è come farli arrivare, ma come trattenerli evitando che scelgano di andare altrove. Un Paese con le nostre prospettive demografiche e di sostenibilità del welfare è tutto fuorché attraente. In altri termini: per quale ragione un giovane straniero (come un giovane italiano) dovrebbe fermarsi qui a pagare le nostre pensioni? L’argomento dei sostegni alla famiglia, e di un riequilibrio demografico capace di garantire un futuro a tutti, è uno dei più importanti. La forza di una città, sosteneva nel 400 a.c. lo storico e filosofo Tucidide, non si misura dalla robustezza delle sue mura o dalla forza del suo esercito, ma dal carattere e dalla vitalità della sua popolazione. Se considerassimo i parametri attuali, l’Italia non appare in buono stato. Possiamo fare molto meglio.
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