mercoledì 17 dicembre 2014
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Nelle fotografie da Peshawar i piccoli sacchi di plastica già chiusi si allineano sui letti di un obitorio, e intorno piangono tutti: non solo i padri, ma gli infermieri, i poliziotti, tutti. Perché quegli oltre 130 bambini e ragazzi ieri mattina in un momento sono diventati figli di ognuno, figli di un popolo intero: che attonito sta di fronte a questa strage di agnelli. Uccisi a sette o dieci anni, per rappresaglia contro la repressione del terrorismo all’opera nel nord-ovest del Pakistan, dove vorrebbe proclamare uno "Stato islamico". Ai bambini, ieri, veniva intimato di proclamare l’atto di fede del Corano. Poi, ad uno ad uno, uno sparo. Una insegnante è stata bruciata viva davanti ai suoi alunni. Perché? Semplicemente, quella scuola apparteneva all’esercito. Semplicemente, era una scuola del Nemico, di quell’"altro", diverso da sé per convinzioni, che nella ferocia integralista perde la sua connotazione umana, e si fa un niente: non uomini, ma puri numeri – che si eliminano come si distrugge un termitaio. Le immagini da Peshawar sono le stesse di Beslan, dieci anni fa, della strage della Scuola Numero Uno, quando le madri urlavano impazzite, perché del loro bambino nelle esplosioni e nel fuoco non restava niente: nemmeno un corpo, come se non fosse mai nato. Anni fa, quando in Iraq il terrorismo prese a far saltare gli acquedotti, il filosofo francese André Glucksmann fu tra i primi a parlare di un riaffacciarsi nella storia del nichilismo che aveva alimentato i lager e i gulag dei sistemi totalitari: perché togliere l’acqua al tuo popolo non è "per" qualcosa, ma è solo distruzione, è solo adorazione del niente. Ma pare che in questi anni la pianta maligna della ferocia integralista abbia allungato ancora i suoi viluppi: non l’acqua, ma i propri stessi figli, la vita stessa del proprio popolo, hanno colpito ieri a Peshawar. Perché quest’ansia tenebrosa del nulla cova e risorge e rispunta nella storia, appellandosi ora a un ideale, ora a una fede? Come un oscuro cupio dissolvi, una feroce rabbia contro la vita che nasce e si tramanda: rabbia, per il fatto stesso che sia vita.E il Pakistan è lontano, e tuttavia la pianta del nulla è vigorosa, e dobbiamo sapere che un grande nemico cova alle porte del nostro mondo, e non si cura delle fragili linee delle frontiere. Dicono di cercare Dio, ma idolatrano il nulla. Lo adorano, lo alimentano imbottendo di esplosivo le cinture dei kamikaze, mandando avanti a morire e a uccidere le donne e i ragazzini. E ieri a Peshawar, tra le aule di chimica e l’ora dell’intervallo, la vertigine del nulla è venuta su dagli abissi. Quei volti, quei mutilati, quelle madri senza più lacrime né fiato, paiono testimoniare che la festa dell’inferno a Peshawar è perfettamente riuscita: non sembrano forse pacchi, materia, o scorie industriali, quei piccoli sacchi di cellophane in fila? Direste voi, guardandoli, che due giorni fa erano bambini?  «La morte, che trasforma gli uomini in cose», annotava nel suo diario, dolente, Simone Weil. Eppure guardate ancora le facce di quei poliziotti, medici, barellieri, passanti, e come, anche estranei, piangano come fossero figli loro. Nel fondo dell’abisso, quasi un’aurora di miracolo: messi davanti all’assoluto niente, questi uomini si mostrano spezzati, infranti, ma forse mai come prima profondamente uomini. Come se l’urto del male totale generasse non il nulla, ma, invece e paradossalmente, un germe quasi invisibile e caparbio: il desiderio di amare, essere insieme, vivere. E a noi che guardiamo, e che dal Pakistan siamo così lontani, viene da pregare: per quella gente mutilata nel cuore, perché sappia reggere, reagire, cercare ancora e di nuovo pace, e bene comune. Pregare per noi: perché non ci accada mai, non ci occorra un tale terribile schiaffo, a richiamarci dalla distrazione, dalla noia, dalla rabbia in cui spesso anneghiamo la memoria che siamo un popolo, e che insieme vogliamo vivere e trasmettere a chi verrà la nostra storia. Perché sappiamo che comunque e al di là di ogni conflitto i figli nostri sono figli di tutti – e non polvere, non cenere che si dissolve nel deserto del niente.
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