Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Cop21, che si aprirà a Parigi il prossimo 30 novembre, sarà sicuramente responsabilità degli Stati fare il possibile per definire accordi vincolanti che limitino drasticamente le emissioni di CO2 in atmosfera, principale responsabile del riscaldamento globale e dei cambiamenti che già stanno mutando e rischiano in futuro di stravolgere gli equilibri climatici del nostro pianeta. Ma in questa partita, decisiva per il futuro dell’umanità, c’è anche una dimensione di responsabilità individuale che riguarda gli stili di vita e di consumo di ognuno di noi e la loro compatibilità con gli equilibri climatici. È soprattutto in questa prospettiva, insolita e per certi versi affascinante, che invita a guardare l’economista francese Thomas Piketty, diventato celebre a livello mondiale per il libro 'Il capitale nel XXI secolo' in cui criticava il modello capitalistico per via delle disuguaglianze che produce. Ora Piketty torna a far parlare di sé con un interessante e in un certo senso provocatorio studio pubblicato a quattro mani con Lucas Chancel, ricercatore presso Iddri, l’istituto parigino che approfondisce i temi dello sviluppo sostenibile in una prospettiva globale. Lo studio (Carbon and inequality: from Kyoto to Paris) prende le mosse dalla considerazione che per affrontare le due grandi emergenze globali rappresentate da un lato dal degrado dell’ambiente (dove la questione dei cambiamenti climatici è in primissimo piano, anche se non l’unica: altre grandi emergenze sono ad esempio la perdita di biodiversità o l’acidificazione degli oceani) e dall’altro dalla crescita delle disuguaglianze economiche, non si può che iniziare col cercare di comprendere le relazioni fra di esse. Occorre indagare, cioè, che cosa leghi crisi ambientale e climate change con l’aumento delle disuguaglianze economiche. Il punto è che l’acuirsi delle differenze fra ricchi e poveri in termini di reddito medio si è verificata più all’interno dei Paesi stessi che nel confronto fra Paesi e aree del mondo. Per fare questo, allora, lo sforzo non è tanto quello di individuare le nazioni responsabili della maggiore quantità di emissioni di anidride carbonica o di altri gas 'climalteranti' (in inglese l’acronimo che viene utilizzato è Ghg, 'green house gases', cioè gas responsabili del riscaldamento globale o effetto serra), dato che si tratta di un’informazione piuttosto nota: Stati Uniti e Cina davanti a tutti, poi l’Europa a debita distanza, quindi India, Russia e via via le altre aree del mondo. Si cerca, piuttosto, di comprendere dove vi sia, nel mondo, una presenza più concentrata di individui che coi loro comportamenti di consumo, oltre che grazie ai loro livelli di reddito, sono da ritenere responsabili della maggiore quantità di emissioni di CO2. Per individuare quelle che si possono definire le responsabilità individuali collegate al fenomeno dei cambiamenti climatici, Piketty utilizza un modello di calcolo che passa dalle emissioni prodotte alle emissioni consumate, spostando cioè l’attenzione dalla produzione al consumo. Come dire: che senso ha valutare una nazione in base alla produzione di CO2 delle sue CO2 su base individuale, a chi appartiene alla classe di reddito medio-alta in Cina. Lo studio stima che abita nei Paesi emergenti addirittura un terzo dei «grandi emettitori di CO2» (il cui livello di emissioni, cioè, è più del doppio della media globale, calcolata in 6,2 tonnellate di CO2 equivalente). Venendo in particolare all’Europa, passando dal calcolo basato sulla produzione a quello basato sui consumi, le nostre responsabilità, cioè il livello medio di emissioni per persona l’anno, aumentano del 41%. Mentre crescono solo del 13% per gli Usa e, soprattutto, diminuiscono del 25% per la Cina. In sintesi, tutto ciò significa che nel periodo considerato dallo studio (1998-2013), le disuguaglianze in termini di emissioni di CO2 sono aumentate più all’interno dei Paesi, fra chi è più ricco e ha stili di consumo più impattanti in senso ambientale, e chi è più povero, rispetto al confronto fra Paesi e aree del mondo. Dunque è sui «grandi emettitori», presenti non solo nei Paesi ricchi, ma anche in quelli emergenti e in minima parte persino nei Paesi poveri, che ricadono le maggiori responsabilità legate al climate change imprese se non si considera anche quanto incide il consumo e lo stile di vita dei suoi abitanti? Questo costituisce un cambiamento di prospettiva che stravolge la mappa delle responsabilità del cambiamento climatico sul pianeta. Perché la distribuzione a livello mondiale degli individui responsabili di alti livelli di emissioni di CO2 non ricalca esattamente quella per Paesi. Insieme a quella degli statunitensi, ad esempio, che viene assolutamente confermata e anzi rafforzata, emerge la crescente responsabilità di noi europei a fianco dei cinesi. In generale viene ridefinita su scala mondiale la geografia delle responsabilità dei cambiamenti climatici. Per dire: l’1% più ricco degli Stati Uniti, del Lussemburgo, ma anche di Singapore e dell’Arabia Saudita, è responsabile di un livello di emissioni di CO2 che è 2mila volte più alto di quello di chi sta alla base della piramide reddituale in Paesi fra i più poveri al mondo come Honduras, Mozambico, Ruanda e Malawi. Allo stesso tempo, il più ricco 1% in Tanzania è paragonabile, in termini sempre di emissioni di CO2 su base individuale, a chi appartiene alla classe di reddito medio-alta in Cina.La prospettiva di Piketty può aiutare a individuare, se non proprio delle soluzioni, quanto meno delle azioni che siano adeguate a contrastare i cambiamenti climatici? Lo studio suggerisce alcune strade con cui si potrebbero aumentare le risorse da destinare, nel mondo, al finanziamento di programmi e iniziative di adattamento al cambiamento climatico (si parla di 150 miliardi di dollari di euro l’anno che sarebbero necessari, lo 0,2% del Pil globale). Vengono fatte ipotesi di introdurre una carbon tax, eventualmente da modulare in modo tale da far contribuire di più i Paesi in cui risiedono i maggiori emettitori di CO2. Si ipotizza anche la possibilità di una tassa sui biglietti aerei, più alta per chi viaggia in business class, che sarebbe forse di più facile attuazione ma rischierebbe di non essere adatta a far pagare di più chi più emette. Di certo, il cambio di prospettiva dalla sfera statale a quella individuale, insieme alla nuova geografia che ne consegue sulle responsabilità collegate al climate change, paiono gli elementi più interessanti del nuovo lavoro di Piketty. Nel quale sembra di trovare naturali assonanze, anche se non viene mai citata, con l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, specie nelle parti in cui essa è dedicata ai comportamenti individuali: ad esempio nel paragrafo 211, dove il pontefice sottolinea come «L’educazione alla responsabilità ambientale può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente», o nel successivo paragrafo 212, dove Papa Francesco induce a riflettere sul fatto che «non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo». Quanto meno il lavoro di Piketty è un invito a mettere sullo stesso piano le responsabilità degli Stati e quelle individuali. Anche quando si tratta di trovare risposte a sfide globali e urgenti, com’è ormai agli occhi di tutti quella dei cambiamenti climatici.
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