È facile rispettare un limite quando è impossibile superarlo. Per esempio quello dei 14 giorni di vita dell’embrione umano, una soglia da non oltrepassare nella ricerca sugli embrioni stessi: finora il loro record di sopravvivenza in laboratorio era stato di nove giorni, e di solito non superiore alla settimana. Periodi sempre abbondantemente inferiori alle due settimane indicate dagli scienziati fin dal 1979. La scelta dei 14 giorni è stata posta convenzionalmente, adottando uno dei tanti criteri possibili: è lo stadio di sviluppo oltre il quale un singolo embrione non si può più dividere, né due si possono fondere, ed è segnato dalla comparsa di una struttura, la stria primitiva, facilmente individuabile dagli studiosi. Ma soprattutto si tratta di un criterio che finora ha consentito di fare ricerca per tutto il tempo in cui un embrione riesce a sopravvivere al di fuori del ventre materno: un confine invalicabile per una ricerca praticamente illimitata.
Come se nelle nostre strade si fissasse il limite di velocità a 600 Km orari, compiacendosi poi del fatto che tutti lo rispettano. Suona quindi un po’ ipocrita ribadire che finora la comunità scientifica si è attenuta a tale indicazione, mostrando di essere in grado di autoregolarsi, e neppure si può parlare di utile compromesso al fine di «ricavare uno spazio per l’indagine scientifica rispettando allo stesso tempo le diverse opinioni sulla ricerca sugli embrioni umani», come scritto recentemente su Nature da tre studiosi del settore. I 14 giorni di ricerca libera non hanno significato alcun compromesso, non hanno posto alcun limite effettivo. La ricerca che distrugge gli embrioni umani la si fa o non la si fa: questo è il vero discrimine. Di poche settimane fa la controprova: appena pubblicati due lavori in cui embrioni umani sono sopravvissuti 13 giorni in colture e supporti dedicati, è scattata subito la richiesta di modificare il vincolo, ovviamente in avanti, per poter continuare senza condizionamenti.
I fatti sono noti: con i rispettivi articoli in due prestigiose riviste scientifiche, Nature e Nature Cell Biology, due diversi gruppi di studiosi hanno mostrato che embrioni umani 'sovrannumerari', cioè formati per la fecondazione assistita, successivamente crioconservati e ceduti alla ricerca dalle coppie che li avevano generati, una volta scongelati e trasferiti su appositi supporti su cui hanno attecchito, hanno continuato a svilupparsi in vitro quasi per due settimane, permettendo di osservare per la prima volta la loro crescita nelle fasi finora celate ad occhi umani, perché possibili solamente in utero, durante e dopo l’impianto. I due gruppi di ricercatori – uno americano, guidato da Ali Brivanlou della Rockefeller University e l’altro inglese, di Magdalena Zernicka-Goetz di Cambridge – hanno evidenziato differenze e somiglianze con i modelli animali mammiferi, sottolineando soprattutto la capacità degli embrioni osservati di autoorganizzarsi anche in mancanza di input e tessuti materni.
Un grado di autonomia inaspettato per gli studiosi, e l’ennesima indicazione del fatto che un embrione umano è un essere umano radicalmente altro dalla madre che gli consente di crescere in grembo e venire alla luce: ma non è stata questa l’osservazione degli addetti ai lavori, per cui la strada è solo all’inizio. Innanzitutto gli embrioni lasciati crescere su supporti piani non si sono sviluppati su tre dimensioni ma su due, restando fortemente appiattiti, e l’identificazione di cavità, strutture e tipologie cellulari nel corso dello sviluppo embrionale va certamente raffinata. D’altra parte – sottolineano gli scienziati nel ribadire la necessità di continuare questo tipo di ricerche – è proprio lo stadio dell’impianto in utero dell’embrione quello in cui molte gravidanze falliscono, e al tempo stesso si tratta di un momento fondamentale per la differenziazione cellulare: l’obiettivo dichiarato di questo tipo di studi è la comprensione dei processi biologici di base. Ma se il fine è conoscere meglio tutto il conoscibile, a prescindere dall’oggetto della ricerca e senza altre condizioni, ogni limite che si vorrà proporre sarà inevitabilmente visto come un danno, una intollerabile mutilazione della conoscenza. «È veramente imbarazzante all’inizio del ventunesimo secolo conoscere di più su pesci, topi e rane che su noi stessi. È un po’ difficile spiegarlo ai miei studenti», è il commento insofferente di Ali Brivanou, a capo del gruppo americano, che rende bene l’idea della seccatura che si prova a dover procedere per gradi. Eppure ogni tipo di ricerca su esseri senzienti – dagli animali alle sperimentazioni cliniche sugli umani – pone limiti e restrizioni, senza i quali sicuramente si avrebbero risultati più significativi dal punto di vista della mera conoscenza. Sugli embrioni umani, però, vale un altro registro. I due esperimenti che hanno simulato l’impianto embrionale in utero hanno contribuito a riaccendere i riflettori sulla ricerca sugli embrioni umani, dopo che il Nobel per le 'staminali etiche' di Yamanaka sembrava averne assopito la vis polemica.
S ta infatti lavorando a un report dedicato, da concludere nell’anno in corso, il team internazionale istituito lo scorso dicembre durante il 'Summit delle Accademie' – le Accademie nazionali americane di Medicina e di Scienze, l’Accademia delle Scienze cinese e quella inglese – interamente rivolto al
gene editing: la nuova tecnica 'taglia e cuci' di manipolazione genetica che sta rivoluzionando la terapia genica, per la quale è stata chiesta una moratoria limitatamente alle sue applicazioni cliniche su embrioni e cellule germinali. Ma nell’attesa che gli esperti internazionali concludano il loro lavoro, è partita la corsa al
gene editing sugli embrioni: dopo la Gran Bretagna, che ha autorizzato studi in tal senso al Francis Crick Institute a Londra, anche la Svezia si appresta a 'editare' embrioni al Karolinska Institute, a Stoccolma. Ed è ancora una volta cinese il secondo lavoro (dello scorso 6 aprile, sul J. Assist. Reprod. Genet.) sul
gene editing su embrioni umani, stavolta per cercare di indurre mutazioni che rendano resistenti all’HIV.
Anche per il
gene editing gli esperti vogliono usare subito embrioni umani e non animali, e possibilmente non anomali ma sani, ovviamente per 'migliorare i risultati'. Nei prossimi giorni la International Society for Stem Cell Research renderà pubbliche le nuove linee guida per la ricerca sulle cellule staminali, che si pongono come obiettivo quello di dare un quadro di riferimento agli scienziati, «alla luce delle nuove forme di ricerca sugli embrioni». Gli esperti che ne hanno dato notizia, su Nature, auspicano che si possano evitare limiti restrittivi alla ricerca. Una ricerca che nella sua – legittima – impazienza di svelare i misteri della vita umana, sembra ormai non essere più in grado neppure di riconoscerla mentre, per scrutarla, la distrugge.