La prima strategia messa in atto dai potenti per ignorare le ragioni del povero è stata, e continua a essere, pensare e dire che è colpevole, attribuirgli la colpa della sua povertà. Isaia condanna il popolo e le sue élite, ma non condanna i poveri. In una cultura dove il povero era considerato anche colpevole, i profeti (insieme a Giobbe) dicono esattamente l’opposto: il dolore dei poveri è la conseguenza delle colpe dei capi, dell’idolatria e della falsa religione dei re e dei sacerdoti. I poveri sono vittime dell’ingiustizia di un popolo infedele, non sono colpevoli. Per comprendere la forza rivoluzionaria della critica spietata e radicale di Isaia, dobbiamo tener presente che l’ambiente nel quale operava e viveva Isaia era il tempio di Gerusalemme. I sacerdoti, che celebravano i sacrifici condannati dal profeta, erano suoi vicinissimi concittadini, persone con le quali era in contatto tutti i giorni. I sacrifici continuavano mentre Isaia li criticava, e i poveri restavano senza soccorso.
Il destino del profeta sta nel dover annunciare la stupidità delle offerte di tori e agnelli, mentre il loro sangue scola sotto i suoi piedi. Se il dolore per il proprio insuccesso, o la preoccupazione di offendere i suoi ascoltatori, avessero frenato la parola di Isaia e degli altri profeti, oggi non avremmo parole grandi per continuare a dire l’inutilità di certi nostri "sacrifici" e per denunciare le idolatrie delle religioni e degli ateismi del nostro tempo. I profeti ci amano perché, per vocazione, non concedono nulla alle nostre auto-illusioni consolatorie. Gli idoli sono ruffiani e cercatori di ruffiani, i profeti mai.
Proseguendo la lettura di Isaia iniziamo a scoprire la grande ricchezza antropologica e teologica che si nasconde dietro la critica radicale ai sacrifici che apre il suo libro. Le offerte al tempio e i suoi commerci sono una strada sbagliata perché la strada giusta è un’altra, quella della giustizia, e quindi dell’azione a favore dei poveri: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (1, 16-17). Agire a favore di oppressi, orfani, vedove, forestieri è la sola possibilità per una autentica vita religiosa. La condizione del povero dentro le nostre comunità di fede è il primo criterio per la giustizia ed è
anche il primo criterio per la vita religiosa: «Come mai la città fedele è diventata una prostituta? (...) Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro». (1,21-23).
Per Isaia la ricerca della giustizia, e quindi la condizione dei poveri, è prima di tutto una
questione teologica, non assistenziale. Anche se i modi di amare i poveri sono molti, almeno quanti sono i volti delle povertà e dei poveri, ci sono esperienze religiose che dimenticano i poveri al punto di non vederli più e arrivano a pensare che siano scomparsi dalle città opulente. E quelle esperienze religiose sono di fatto idolatrie. Quando incontriamo veramente la voce del Dio biblico, siamo chiamati a lasciare la nostra terra verso altri luoghi, a uscire dal nostro "già" verso un "non ancora", ad abbandonare le nostre sicurezze per occuparci di altro, di qualcun altro. Ecco perché la sollecitudine per le povertà è la
condizione necessaria per la fede: è il primo "non ancora" verso cui muovere, è il segnale che non riduciamo Dio a un bene di consumo. Si può diventare idolatri anche insieme ai poveri, ma non si segue il Dio biblico
senza i poveri.
Per questa ragione, nel discorso di Isaia incontriamo prima il peccato contro i poveri e solo dopo la condanna dell’idolatria: le religioni e le comunità spirituali senza poveri sono già
idolatriche. Le persone e le comunità che frequentano i templi, che pregano, cantano e lodano, ma che hanno perso contatto con i poveri, non li abbracciano, non li invitano nelle loro case, che non fanno di tutto per cambiare le leggi e migliorare le condizioni dei più poveri, sono già dentro un culto idolatrico, anche se non lo sanno. La sola strada che ci conduce lontano dagli idoli è quella percorsa insieme ai poveri. Il Dio biblico sta lì, solo lì possiamo sperare di trovarlo. Sta sempre stretto e scomodo nei templi che gli costruiamo, ci rimane poco e a malincuore, perché ama le periferie e l’aria aperta.
Ecco perché nei primi capitoli di Isaia il discorso sui sacrifici si interseca più volte con quello sui poveri e sugli idoli: «Sì, tu hai rigettato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché rigurgitano di maghi orientali e di indovini come i Filistei (...). La sua terra è piena d’argento e d’oro, senza limite sono i suoi tesori; la sua terra è piena di cavalli, senza limite sono i suoi carri. La sua terra è piena di idoli; adorano l’opera delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita» (2,6-8).
Idolatria, maghi, indovini, ricerca della ricchezza e abbandono dei poveri sono facce dello stesso prisma pseudo-religioso. Ieri e oggi sono molti i credenti che dimenticano i poveri e riempiono i templi, e magari all’uscita leggono l’oroscopo sul giornale o comprano un gratta-e-vinci. Isaia ci dice semplicemente e senza compromessi che queste pratiche religiose sono culti idolatrici. Adorare manufatti, celebrare riti alla fertilità (1,29), ricercare oro, non prendersi cura dei poveri
sono la stessa cosa, sono espressioni diverse della medesima prostituzione religiosa e sociale. L’idolatria non è esterna alla religione, è la sua principale malattia auto-immune, che essa stessa genera quando perde contatto con la profezia. Isaia aggiunge due elementi alla critica biblica all’idolatria, elementi fondamentali per ogni fede e per ogni idolatria: l’idolo si insinua anche dentro i tempi della religione (coi sacrifici) e ci allontana dai poveri. Le religioni hanno sempre pullulato di idolatrie, soprattutto nei tempi di crisi religiosa, quando di fronte alla difficoltà di capire e ridire le antiche parole della fede biblica, invece di rileggere i profeti si cercano oracoli e indovini, dentro e fuori i templi, che promettono salvezze più semplici. Ma, ieri e oggi, "marcatori idolatrici" sono sempre gli stessi: abbondanza di culti e distanza dal grido dal povero, fughe in cerca di emozioni e di consolazioni a buon mercato. Le idolatrie sono esperienze di
consumo, perché si costruisce il manufatto con la speranza che soddisfi i nostri bisogni. Gli idoli sono molti e popolari perché sono risposte puntuali ai gusti dei consumatori.
Il primo dono che la Bibbia, e in essa soprattutto i profeti, ci ha fatto nel corso dei millenni è la protezione dalla produzione idolatrica, che è sempre stata e continua a essere l’esperienza "religiosa" più comune sotto il sole. È molto raro che quando pronunciamo la parola "Dio" la nostra voce non raggiunga dall’altra parte soltanto l’eco di se stessa, restituitaci dai nostri manufatti. La Bibbia è una mappa che ci guida in regioni spirituali e umane dove è possibile (anche se mai certo) che la nostra voce orante e il nostro grido siano raccolti da Qualcuno diverso da noi stessi, diverso dai nostri manufatti, o dai nostri amici.
La Bibbia, e i profeti, sanno molto bene, perché lo hanno imparato nel dolore della fedeltà alla verità della parola, che gli uomini sono costruttori naturali di idoli, che ogni tanto e in buona fede chiamano anche JHWH, Gesù, Allah. Lo sanno molto bene, e per questo continuano a dircelo in molti modi, pur sapendo che non ci piace sentirlo, che non riusciamo neanche a capirlo, troppo abituati come siamo ai nostri riti idolatrici consolatori. Ci aiutano non perché ci dicono chi è e come è fatto il vero Dio (la Bibbia è anche un grande silenzio e una grande assenza di Dio), ma dicendoci soprattutto chi e che cosa Dio
non è. Insegnandoci a individuare gli idoli attorno e dentro di noi. La Bibbia è un grande esercizio di anti-idolatria perché il Dio biblico non ha fatto dell’uomo il suo idolo. L’uomo è stato creato a "immagine di Elohim", ma non è diventato l’idolo di Dio. Manufatto, ma non idolo. E poteva diventarlo data la sua bellezza, avendolo fatto di poco "inferiore agli Elohim" (Salmo 8). Il Dio biblico è innamorato dell’uomo, al punto di sognare di diventare come lui. Ma tenendolo distinto e altro da sé, non ne ha fatto il suo idolo. Una scelta pagata con un prezzo molto caro, perché per non diventare l’idolo di Dio, l’Adam è stato messo nella libertà di evolvere, di cambiare, di peccare, persino di negarlo e rinnegarlo, o di trasformarlo in vitello d’oro, di inchiodarlo su una croce. Un prezzo altissimo, e un valore infinito. Quando ce ne accorgeremo veramente?
L’immensa dignità dell’uomo fa sì che le insidie più profonde delle fedi si annidino proprio nel cuore delle religioni, non al di fuori di esse. Non iniziamo mai la vera vita spirituale se un giorno, benedetto giorno, non ci accorgiamo che abbiamo trascorso la vita parlando con noi stessi o con un idolo, anche se eravamo convinti di parlare con Dio. In quel giorno può iniziare una nuova vita, in un grande silenzio e in un grande vuoto, dove si scoprono e si ringraziano i profeti, si diventa loro compagni di viaggio, e si reimpara un’altra fede, forse non idolatrica.
Noi continuiamo a produrre idoli, e continuiamo a chiamarli Dio. E i profeti continuano a ripetercelo. È così che ci amano.
l.bruni@lumsa.it