“Beato l’uomo che non segue il consiglio dei malvagi. …
Egli sarà come un albero piantato vicino a ruscelli,
il quale dà il suo frutto nella sua stagione,
e il suo fogliame non appassirà”
Salmo 1
Le piante
e la loro intelligenza hanno molto da dire al nostro capitalismo vegetale. Ci
fanno capire meglio le cooperative, la vita e la morte di comunità e imprese,
la vita spirituale e morale delle persone, la stagione che dobbiamo abitare
Il miracolo dell'albero e della talea: resistere alla morte
L’intelligenza
degli esseri umani non è l’unica intelligenza del pianeta. Accanto alla nostra
c’è quella diversa degli animali, quella degli insetti, e quella ancora diversa
delle piante. La botanica e le altre scienze ci stanno mostrando che le piante
e i vegetali sentono, imparano, vedono, soffrono, ricordano, decidono, si
aiutano e collaborano tra di loro, e sono molto più simili a noi di quanto
pensiamo. Questo lo sanno bene i contadini e i giardinieri, che ogni giorno
vedono e sentono che le piante reagiscono ai tocchi delle loro mani, che il
loro comportamento risponde anche a una legge di reciprocità, tra di loro e con
noi. Vivono e crescono bene nei nostri giardini e nelle nostre case quando
trovano in noi compagni solidali, e appassiscono anche perché assorbono le
nostre nevrosi e negatività – la morte di una pianta accanto a noi è sempre un
messaggio.
Tutti
possiamo sperimentare la ricchezza della vita delle piante, ma dobbiamo entrare
in un bosco o in un parco senza fretta, senza cuffie, senza correre concentrati
solo sulle nostre calorie. Siamo circondati da molti linguaggi che non capiamo
più, perché un giorno ci siamo messi a correre troppo velocemente, dando inizio
alla progressiva estinzione di molte lingue non-umane che avevano abitato la
terra per millenni – solo rallentando e mettendoci al loro passo possiamo
risintonizzarci con la "voce" delle piante e di molta altra vita.Gli alberi
e il mondo vegetale hanno una caratteristica fondamentale dominante: sono
ancorati al suolo, hanno radici. Questo ancoraggio alla terra è stato un grande
svantaggio evolutivo, perché impedisce alle piante di fuggire dai predatori o
di spostarsi durante le crisi dell’ambiente circostante (incendi o mutamenti
climatici). Stanno lì, ferme e mansuete di fronte a noi – non c’è docilità più radicale
di quella di un pesco o di un giunco. Così, nel corso di qualche milione di
anni, hanno dovuto imparare a sopravvivere perdendo anche il 50 o l’80% del
loro corpo, riuscendo a non morire anche quando vengono divorati e ridotti a
poca cosa. Per riuscire in questa operazione che a noi appare come un autentico
miracolo, le piante svolgono le loro funzioni vitali con tutto il loro
corpo.
Noi animali
abbiamo avuto un grande vantaggio evolutivo sulle piante grazie allo sviluppo
di organi, in una forte divisione funzionale. Respiriamo con i polmoni,
ascoltiamo con le orecchie, vediamo con gli occhi. Le piante, invece, non
avendo organi, vedono, respirano, sentono con l’intera estensione del loro
corpo. Noi abbiamo un sistema gerarchico per pensare e decidere, le piante
"pensano e decidono" con le foglie, con i rami, col fusto, con le
radici. La loro vulnerabilità legata alla sedentarietà le ha portate a spalmare
in tutte le loro cellule le loro funzioni vitali. Gli organi specializzati
degli animali ci hanno consentito una grande efficienza e un enorme successo
cognitivo, che però paghiamo con un’altra grande vulnerabilità: è sufficiente
perdere un organo vitale per morire. È molto più difficile uccidere una pianta
che uccidere un animale. Una grande vulnerabilità è diventata una maggiore
resistenza alla morte.
La
vulnerabilità e la resilienza vegetale hanno molte cose da dirci. Le imprese
dei secoli passati si sono strutturate sul modello animale: una forte divisione
funzionale del lavoro e un ordine gerarchico. Questa organizzazione gerarchico-funzionale
ha consentito alle imprese di correre molto, di spostarsi in cerca di
opportunità, di reagire agli stimoli e ai cambiamenti degli ambienti, di
diventare l’organismo di maggiore successo in questi decenni di grande
"cambiamento climatico", soprattutto se confrontate con le comunità civili
e politiche, molto più lente, democratiche, diffuse, ancorate al territorio. Le
imprese sono state e sono le grandi vincitrici della storia evolutiva del
nostro tempo velocissimo. A un certo punto, però, a cavallo dei due millenni, l’ambiente
del mondo umano è cambiato drasticamente con l’arrivo di internet e delle reti,
che somigliano molto alle piante. La stessa metafora della rete o della
ragnatela (web) ci ricorda molto da vicino la vita diffusa dei vegetali, non
certamente gli organi e le gerarchie degli animali. E chi oggi si vuole muovere
in questo nuovo ambiente, deve respirare, ascoltare, ricordare, parlare con
tutto il corpo: come le piante. Deve quindi ripensare e stravolgere la rigida
struttura gerarchica. Chi oggi vuol sopravvivere e crescere nella nuova
economia è sempre più chiamato ad evolvere decentrando e spalmando tutte le
funzioni (compresa quella imprenditoriale), rinunciando a un controllo
gerarchico di tutti i processi e decisioni, attivando e responsabilizzando
tutte le cellule del corpo.
In realtà,
nel nostro modello di sviluppo, soprattutto in Europa, abbiamo conosciuto e
conosciamo imprese organizzate secondo il paradigma vegetale: sono le
cooperative. La forza della cooperazione consiste nell’aver sviluppato una
distribuzione delle funzioni in tutto il corpo, rinunciando alla rigida
organizzazione gerarchica per attivare l’intera compagine sociale. Le
cooperative hanno imparato a respirare, sentire, decidere con tutto il loro
corpo, e lo hanno fatto ripensando i diritti di proprietà dell’impresa e il suo
governo. Essendo ancorate ai territori sono state molto più lente e in genere
meno efficienti delle imprese capitalistiche, ma si sono mostrate molto più resistenti
e resilienti alle crisi ambientali, esterne e interne. E quando sono morte e
muoiono, il loro fallimento dipende spesso dall’aver rinunciato alla metafora
vegetale per imitare gli animali più veloci e attraenti, adottando la loro
governance e cultura. Se le cooperative e le imprese di comunità perdono le
loro capacità di utilizzare tutte le cellule per vivere, si ritrovano solo con
gli svantaggi dell’ancoraggio al territorio - come una volpe catturata dal
laccio dei bracconieri, infinitamente più vulnerabile dell’albero al quale si
ritrova legata.
È probabile
che i protagonisti capaci di abitare con successo il "tempo della
ragnatela" saranno organizzazioni sempre più diffuse e orizzontali, ma che
assomiglieranno alle "vecchie" cooperative. Il vulnus
delle imprese nella new economy della rete è infatti il loro
essere cambiate nella cultura e nella governance ma non ancora nei diritti di
proprietà. I proprietari dei nuovi giganti del web sono ancora troppo pochi, i
profitti (enormi) sono ancora molto concentrati in poche mani. Saranno i
diritti di proprietà e quindi la distribuzione della ricchezza le sfide del
nuovo capitalismo vegetale, temi sui quali oggi non riusciamo a dire quasi più nulla
perché continuiamo a pensarli con le categorie del Novecento (e quindi
affidandolo ancora alla sola politica e/o alle sole tasse). Finché non
inizieremo a pensare a nuove forme di proprietà diffuse nelle nuove foreste,
continueremo a imitare le piante ma resteremo predatori.
La
vulnerabile resistenza delle piante ci può dire ancora molte cose.
Pensiamo
alle comunità spirituali e a movente ideale, o alla nostra vita interiore. Le
comunità che sono state capaci di resistere alla morte dei fondatori, e/o di
superare gravi crisi, erano diffuse e capaci di respirare e vedere con tutto il
loro corpo. Se i leader o i fondatori diventano il cuore o la testa delle loro
comunità, con la loro morte è l’intera comunità che muore. Se invece il carisma
è diffuso in tutto il corpo, le comunità sono capaci di continuare a vivere non
solo dopo il loro fondatore, ma anche perdendo la gran parte del proprio corpo.
Infine,
anche lo sviluppo buono della vita interiore spirituale può essere visto come
una trasformazione progressiva dell’anima, che diventa sempre più simile a un
albero. Se la nostra interiorità è strutturata secondo la forma animale, sempre
in movimento e senza radici, siamo estremamente vulnerabili quando sono colpiti
i nostri luoghi vitali: persone, lavoro, certezze. È sufficiente il tradimento
di un amico, la morte del coniuge, andare in pensione, una crisi di fede, per
sprofondare nel nulla, e sperimentare una autentica morte spirituale. Una buona
educazione, soprattutto dei giovani, consiste allora nell’apprendere a sentire,
soffrire, amare, parlare, vedere con tutta l’anima. Si va più piano,
ma molto più lontano e in alto, e si riesce a sopravvivere perdendo il 50, il
90 o il 99% del "corpo", a rigenerarsi da un piccolo
"resto" ancora vivo in qualche angolo. Per uscire vivi dalle grandi
crisi, morali o fisiche, può bastare aver salvato un pezzettino di tessuto vivo
e sano non divorato dai predatori, e risorgere. Molte volte questo qualcosa di
vivo è semplicemente il nostro lavoro: torniamo in ufficio distrutti da
disgrazie, divorati da lutti, abbandoni, persecuzioni, e mentre accendiamo il
pc o alziamo la solita serranda, sentiamo fisicamente che la vita riparte e
inizia a vivificare progressivamente tutto il corpo. Dio parlò a Mosè dal
roveto mentre stava pascolando il gregge del suocero, mentre lavorava. Il
lavoro è stato spesso il luogo delle teofanie più grandi. Ci siamo salvati da
autentiche morti dell’anima perché sapevamo ancora fare un pranzo, o perché per
anni abbiamo voluto continuare a preparare la tavola con la stessa cura di
quando c’era qualcuno che la vedeva e si sentiva amato. O perché siamo riusciti
a recitare la sola preghiera che ancora ci ricordavamo. Ed è nata una
bellissima talea, qualche volta un grande albero con molti frutti.