All’apparenza è un rompicapo senza soluzioni. È evidente che la Libia da sola non può farcela e che quindi una missione militare di stabilizzazione dovrà essere organizzata, su richiesta del governo Sarraj. E sembra altrettanto logico che l’Italia la guidi, il che implica mettere sul tavolo soldati e soldi. Ma altrettanto evidente è come questa missione rischi di essere una trappola mortale, considerate le fratture fra le mille milizie rivali. Ma anche perché non sembra esservi chiarezza su quali siano i suoi obiettivi politici e strategici. Perché se c’è una lezione che abbiamo imparato dalle precedenti grandi operazioni internazionali di
peacebuilding (cioè di ricostruzione della pace) è che senza un’agenda politica chiara e condivisa si rischia il fallimento.
Già, purtroppo, questa chiarezza e comunità di obiettivi sembra lontanissima quando si parla di Libia. Deriva forse da questa costatazione la prudenza del governo, che per qualcuno è ambiguità o contraddizione, ma che piuttosto sembra la comprensione dei pericoli di coordinare una missione internazionale in cui i principali partner mantengono agende politiche nascoste e duplici.
Oltre a noi, nel Paese nordafricano, sono molto attivi francesi e inglesi. Alleati-competitori con cui abbiamo avuto anni di incomprensione e di anche acuta rivalità. L’atteggiamento inglese, in particolare è stato talvolta percepito da Roma come ostile. Londra sembra aver puntato le sue carte sul consolidamento della presenza in Cirenaica, più che sulla tenuta della Libia come stato unitario. E questa è una politica che mina la nostra strategia di sicurezza e che risulta antitetica all’obiettivo di sgombrare il campo da ogni ipotesi di frazionamento del Paese. L’atteggiamento dei francesi è ancora più ambiguo: a parole appoggiano il governo di unità nazionale, ma non è un mistero il loro appoggio al generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, sponsorizzato da Egitto ed Emirati.
Haftar ha lanciato la sua grande offensiva contro tutte le milizie e le forze islamiste, in nome dell’«unità della Libia». Ma in realtà è egli stesso il capo di una fazione, che sgomita per assicurarsi una fetta del potere. E l’idea di considerare come un unico blocco tutte le fazioni della galassia islamista, da quelle violente jihadiste a quelle della fratellanza islamica, ci spinge dritti in una pericolosa trappola ideologica. Perché è velleitario immaginare di agire in Libia senza interagire con i movimenti islamisti meno ideologizzati. L’impressione è che Parigi guardi più ai suoi legami (e alla vendita di armi) all’Egitto e alla sicurezza della sua area di influenza nella fascia subsahariana che alla stabilità della Libia in quanto tale.
Gli Stati Uniti stanno uscendo a fatica da una certa “letargia” strategica verso questo quadrante. Hanno finalmente capito che non possono appaltare la gestione solo a noi europei. E sembra di capire che guardino con favore alla nostra politica e alla nostra strategia. Ma la loro campagna elettorale non ci aiuta.
Fra i partecipanti allo sforzo di stabilizzazione vi dovrebbe essere anche la Germania; un gigante economico che ha spesso scelto – per motivi storici evidenti – di essere estremamente prudente sul piano geopolitico. Stavolta però, vista e considerata la rovente situazione sul campo nordafricano, Berlino dovrà chiarire – e chiarirsi – su quale siano gli obiettivi strategici reali che persegue.Insomma, date queste prospettive, accettare la direzione di una missione così pericolosa con alleati che perseguono interessi non convergenti – o di fatto divergenti – con i nostri interssi appare puro autolesionismo. Ma la verità è che saremo probabilmente costretti ad agire dalle dinamiche sul terreno; anche per evitare che vi sia un contagio verso altri Paesi, come la Tunisia e l’Algeria. Quest’ultima dovrà affrontare una difficile transizione politica e rischia di venir risucchiata nel gorgo delle violenze islamiste. Dobbiamo quindi lavorare – con l’aiuto di Washington e mai senza consenso significativo tra le parti libiche – per arrivare a una condivisione, almeno parziale, degli obiettivi prioritari di una futura missione sull’altra riva del Mediterraneo. Confidando che risultati sul campo e faticosi (e discreti) sforzi negoziali favoriscano questa convergenza. Ma sapendo che si danza pericolosamente sul ciglio di un abisso.