Notti cariche di nebbia che sfocava cose e luci e persone. Di ragazze sui marciapiedi e automobili che accostavano per caricarle. Notti nelle quali, spesso, s’incontrava un prete con la tonaca stropicciata, un colbacco sulla testa e un mucchio di corone del Rosario nella mano. Ti stupiva vederlo parlare con quelle ragazze sul ciglio della strada. I clienti tiravano dritto, i magnaccia da lontano lo guardavano storto. A ciascuna lasciava una corona e il numero del suo cellulare: «Se vogliono liberarsi, devono potermi trovare in qualunque momento», spiegava. Sul resto non indulgeva: «Le ragazze non vanno consolate, ma liberate». E a chi proponeva di legalizzare o normare la prostituzione, ribatteva che «il male non va regolamentato, ma combattuto».Ancora adesso, cinque anni dopo, ti aspetti di rivedere quel sorriso che non si spegneva mai e gli arrivava diretto dal Padreterno. Di rivedere quel prete sui marciapiedi o nelle discoteche, in una delle sue case famiglia o da chiunque avesse bisogno. E rivederlo dormire nei ritagli di tempo dovunque potesse ricavarsi cinque minuti di sonno. Magari in aereo, come la volta che andò quattro ore in... India per sposare due suoi ragazzi. Incontrava potenti e reietti rimanendo uguale a se stesso, strigliando chi lo meritasse o accarezzando con dolcezza chi fosse in difficoltà: qualcuno, fra i primi, lo osteggiava in pubblico e gli si rivolgeva in privato. A lui non importava: «Siamo tutti fratelli e sorelle, tutti figli di Dio». Gli importava salvare gli esseri umani per conto di Dio. E mettersi di traverso davanti a un’ingiustizia.Diverse volte "scandalizzò" i benpensanti a buon mercato e certi sepolcri imbiancati. Molti furono sorpresi quando fu tra i primi a portare in vacanza i disabili in alta montagna. O quando, qualche mese prima di morire, tuonò (in solitudine) ad una conferenza stampa al Viminale sulla prostituzione. E riuscì a dare "scandalo" addirittura anche... postumo. Fu al funerale, quando i suoi dell’"Associazione Papa Giovanni XXIII" fecero sedere nei primi banchi, vicino alla bara, anziché le autorità, proprio i disabili, le ex-prostitute, gli ex-detenuti, gli ex-tossici... E che gli ultimi fossero diventati primi lo avemmo lì sotto gli occhi.Nella sua stanza c’era una sua foto da giovane prete, un poster con una ragazzina down, la "Preghiera semplice", un letto, un comodino e il Crocifisso. Di fianco, il suo studio era una specie di confusione indescrivibile nella quale si mischiava di tutto, dai nastri ai libri, dai giornali, alle penne. Perdeva regolarmente il cellulare, le chiavi e qualsiasi altro oggetto potesse. Non dava grande importanza alle cose materiali, straconvinto com’era che, ad esempio, «ci penserà Dio» a trovare i soldi per aprire una nuova casa famiglia: «Intanto noi apriamola, che c’è chi ha bisogno».Ridemmo spesso insieme, con don Oreste Benzi. Come una volta, a tavola, che raccontò «quando ebbi davvero paura, un magnaccia mi puntò in faccia la pistola... Ma poi mica mi sparò!». Non si negava mai. Spesso chiamava lui: «Dammi una mano, dobbiamo denunciare quest’ingiustizia!». Un ciclone innescato dal Padreterno e dal quale non c’era verso di... scappare, che altrimenti la tua coscienza avrebbe ululato mesi. «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra - scrisse -, la gente che sarà vicino dirà: "È morto". In realtà è una bugia. Le mie mani saranno fredde, ma la morte non esiste. Perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all’infinito di Dio».