Non fu certo un protagonista del Concilio né come perito né come esegeta di riferimento dei Padri conciliari, ma da un luogo privilegiato come il Pontificio Istituto Biblico di Roma raccolse le testimonianze, il fermento, le discussioni, le grandi novità in campo teologico, liturgico ed esegetico dai protagonisti più diretti di quelle assise. Dal suo studio a Roma, il cardinale gesuita Albert Vanhoye rievoca come fosse ieri i grandi incontri di cui fu testimone tra 1963 e 1965: dal futuro cardinale Henri de Lubac ai biblisti Stanislas Lyonnet e Donatien Mollat, ai professori del Biblico come Roderick Mac Kenzie o Alberto Vaccari, nominati in quegli anni periti al Concilio, a un giovane confratello torinese studioso della Sacra Scrittura, Carlo Maria Martini. Anni vissuti dall’allora giovane religioso francese Vanhoye come dietro le quinte di un palcoscenico, ma trascorsi soprattutto a capire la portata storica di quell’evento: «Noi biblisti eravamo solo preoccupati di una cosa: che l’opera del Concilio avesse successo. Mi trovai in un certo senso dentro la tempesta conciliare perché dovetti nel 1963 sostituire nella cattedra di esegesi del Nuovo Testamento padre Stanislao Lyonnet, sospeso dall’insegnamento; la scelta fu presa di comune accordo tra papa Roncalli e il generale della Compagnia di Gesù, Giovan Battista Janssens. Erano gli anni della rovente polemica con la Lateranense e in particolare con monsignor Antonio Piolanti: accusavano noi del Biblico e in particolare padre Lyonnet di non insegnare la giusta dottrina nel campo della Scrittura e poi indubbiamente dava fastidio il monopolio nel campo delle scienze bibliche di cui godeva il nostro istituto in quegli anni».
La decisione di escludere Lyonnet dall’insegnamento nel bel mezzo del Concilio non fu tuttavia vissuta con sofferenza dal gesuita francese…«Il mio confratello era di natura un animo ottimista: era convinto che l’assemblea ecumenica avrebbe aperto nuove strade. Ricordo ancora le sue parole: "Beh, il Santo Padre ha tante preoccupazioni con il suo Concilio e per me sarà l’occasione di parlare del Concilio ai vescovi e non agli alunni del Biblico". Padre Lyonnet non era un perito, ma veniva spesso consultato dai Padri conciliari, in particolare dai francesi, e visse quegli anni con grande animo di servizio».
Gli schemi della commissione preparatoria, come i lavori della prima sessione, non annunciavano un Concilio che avrebbe significato una svolta per la Chiesa…«Fu indubbiamente così. Il Sant’Uffizio aveva preparato gli schemi e tutto sembrava già pronto, confezionato e prefabbricato. Poi l’intervento del cardinale Achille Lienart ha rasserenato gli animi e da allora l’atmosfera è veramente cambiata: non furono accettati gli schemi del Sant’Uffizio e da lì è partita una rivoluzione che ha dato un nuovo incipit al Concilio. A mio giudizio il vero "scontro" tra i novatori e i cosiddetti conservatori si è avuto, in quella prima sessione, sul tema dei carismi; da una parte c’era la tesi del cardinale Giuseppe Siri, che sosteneva la rarità di questi doni all’interno della Chiesa; dall’altra il cardinale di Bruxelles Leon Joseph Suenens riteneva, al contrario, che i carismi erano frequentissimi, ad esempio nell’esercizio della carità verso i malati o nell’insegnamento della catechesi. La grande preoccupazione dei Padri conciliari era soprattutto che la Chiesa doveva vigilare sul retto uso dei carismi. La discussione, ricordo, accese molto gli animi e mise in luce le grandi differenze ermeneutiche tra le due tendenze».
In quegli stessi anni per un periodo fu ospite del Biblico padre Henri de Lubac. Che cosa ricorda di lui?«Lo ricordo ovviamente come un uomo eccezionale e di grande fede. Rammento i tanti pranzi nel refettorio del Biblico come la sua lunga frequentazione con padre Lyonnet, sua antica conoscenza dai tempi di Fourvière. Ma rispetto a quest’ultimo era molto riservato sui lavori del Concilio, avaro di aneddoti, discreto e in alcuni casi preoccupato del successo finale; credo che avesse paura di un tradimento di quello che era stato pensato e voluto da Giovanni XXIII e Paolo VI. Il pessimismo, a volte, era anche figlio del suo carattere».
Che cosa ha significato invece per il Biblico la presenza del cardinale Agostino Bea?«Il cardinale Bea l’ho avuto come professore al Pontificio Istituto Biblico e posso dire che noi gesuiti eravamo contenti e lusingati che il nostro ex-rettore avesse un ruolo tanto importante al Concilio, vista la sua impronta su documenti come la
Nostra Aetate e il decreto
De Oecumenismo. Bea, a mio giudizio, era già preparato nel suo ruolo di ambasciatore dell’unità dei cristiani e del dialogo con gli ebrei dalla sua stessa storia personale. Infatti era nato nei pressi di Blumberg nel Baden Württemberg, un territorio della Germania abitato anche da protestanti ed ebrei. Fu un vero uomo di dialogo».
Negli stessi anni lei conobbe Carlo Maria Martini. Cosa ricorda?«Eravamo entrambi biblisti, in un certo senso, alle prime armi. Abbiamo vissuto gli anni del Concilio con la stessa trepidazione e aspettative e con la speranza che l’evento portasse un vento nuovo dentro la Chiesa. Oltretutto mi trovai ad essere suo professore perché gli mancava l’abilitazione all’insegnamento al Biblico e così terminò, in un certo senso con me, il suo apprendistato di biblista: devo ammettere lo dispensai dalla frequenza delle lezioni perché sapeva già tutto. Gli chiesi soltanto un lavoro di critica testuale».
Che cosa ha significato per lei e per i biblisti un documento come la costituzione dogmatica «Dei Verbum»?«Preciserei subito un aspetto: la
Dei Verbum viene, a torto, considerata un documento sulla parola di Dio, mentre invece riguarda soprattutto la Rivelazione divina. Il testo ha soprattutto evidenziato che la Rivelazione non è soltanto costituita dalla Sacra Scrittura, ma comprende anche la trasmissione della fede della Chiesa nel mistero di Cristo. Fu molto apprezzato dai biblisti il fatto che il Concilio avesse recepito quello che già l’enciclica di Pio XII
Divino afflante spiritu (alla cui stesura collaborò il futuro cardinale Bea) aveva affermato sui generi letterari. La sottolineatura ha rappresentato una svolta per il mondo degli esegeti, perché ha offerto uno strumento in più nel campo della comprensione del testo biblico. Attraverso quel metodo l’esegeta interpreta con precisione un passo, ma può fare riferimento ai generi letterari per far comprendere con più chiarezza e contestualizzando il senso della Parola di Dio».
Un documento d’importanza capitale, dunque…«Direi proprio di sì. Questa Costituzione dichiara in modo molto chiaro che l’esegesi non è completa se non si fa con un’attenzione all’insieme della Rivelazione, se non si legge e si interpreta in unione con la fede della Chiesa. Questa precisazione ha permesso di sottolineare che i testi della Bibbia non sono documenti storici neutrali, ma sono portatori di una Rivelazione divina e quindi non basta studiarli come fossero documenti dell’antichità. Una lezione e un monito attualissimo per tutti noi esegeti».
Per i biblisti i documenti del Concilio, in particolare la «Dei Verbum», hanno rappresentato dunque una svolta nel metodo di lavoro.«Non si può parlare di svolta. Si è trattato di una conferma per la rilevanza che i biblisti hanno dato nelle loro ricerche al metodo storico-critico, all’utilizzo dei generi letterari: tutto questo ha permesso di allargare lo sguardo e l’orizzonte al nostro lavoro; ha consentito agli esegeti cattolici un’interpretazione più profonda, accurata e completa. Ma la lezione e in particolare il suggerimento è di andare oltre i risultati del metodo storico-critico e approfondire invece il senso religioso del testo; un invito dunque a non soffermarsi solo ai contesti storici o agli stili letterari in cui fu elaborato un testo. Io credo che questo sia il lascito maggiore della
Dei Verbum per i biblisti. Un rilievo fortemente ribadito da papa Benedetto XVI».
Eminenza, come visse la fine del Concilio?«È sembrata la conclusione di un evento molto fecondo. Il Concilio non ha potuto esprimersi su tutto, però ci ha consegnato documenti che sono illuminanti, profondi e stimolanti. Le mie aspettative? Che questi testi conciliari non solo siano studiati ma anche vissuti. Il mio suggerimento è fare riferimento ai documenti del Vaticano II anche per l’interpretazione della Sacra Scrittura; a 50 anni dalla sua indizione la sua eredità forse risiede proprio in questo. Si trattò di un orientamento garantito dall’autorevolezza del Concilio, guidato dallo Spirito Santo. Dopo mezzo secolo si possono vedere i limiti ma anche la grandezza di quell’evento così provvidenziale per la vita della Chiesa».