Riproponiamo l'intervista rilasciata ad Avvenire da padre Roberto Tucci in occasione del novantesimo compleanno e pubblicata il 19 aprile 2011
Perito al Concilio Vaticano II, direttore di La
Civiltà Cattolica, della Radio Vaticana, ma soprattutto preparatore dei
viaggi apostolici di Giovanni Paolo II dal 1982 al 2001, il Pontefice –
sono sue parole – «che più ha inciso sulla mia vita di sacerdote». È in
sintesi il Novecento del cardinale gesuita Roberto Tucci che oggi compie
90 anni. Un Novecento, il suo, costellato di grandi incontri durante l'assise
conciliare: da Jean Daniélou al giovanissimo Karol Wojtyla, fino a Yves
Marie Congar ai delicati incarichi sotto i pontificati di Giovanni XXIII,
Paolo VI e Giovanni Paolo II. «Pensi, fu Papa Roncalli a nominarmi perito
– racconta divertito il porporato napoletano, ma di origini inglesi per
parte di madre –. Ricordo che rimase colpito dalla mia giovane età come
direttore della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica. Per me il Concilio
ha rappresentato una ventata di freschezza per tutta la Chiesa. Avendo
studiato a Lovanio, fui accolto con grande simpatia e senza ostilità da
tutti gli esponenti della Nouvelle théologie. In particolare grazie al
mio ruolo di direttore e alla mia buona amicizia con Henri de Lubac, divenuto
poi cardinale, appartenevo al gruppo più informato sui lavori del Concilio,
avendo anche un rapporto diretto con i giornalisti».
Lei con un giovanissimo
Karol Wojtyla ha fatto parte della commissione ristretta che scrisse il
documento "Gaudium et spes". Che cosa ricorda di quell'esperienza?
«Un
ruolo fondamentale per la stesura di quel testo, il famoso "schema XIII",
lo hanno giocato i domenicani Marie Dominque Chenu e Yves Marie Congar.
Quasi tutte le sessioni si tennero ad Ariccia. L'apporto di Karol Wojtyla
fu determinante sul tema della libertà di religione e sul diritto di credere
e di esprimere la propria fede. Si avvertiva nei suoi interventi il peso
di un uomo che veniva da una Chiesa sotto un regime totalitario. Non è
un caso che la Gaudium et spes sia stato il documento del Concilio citato
più spesso durante il suo pontificato, come si evince anche dalla sua prima
enciclica Redemptor Hominis».
Quali sono i suoi ricordi di Paolo VI?
«Un uomo di grande fede e attentissimo alle storie delle persone e alle
grandi amicizie. Pensi che quando il mio confratello Giovanni Caprile doveva
redigere per la Civiltà Cattolica le cronache del Concilio, per agevolarlo
gli forniva i suoi appunti, correzioni, notazioni. Ricordo, ad esempio,
come una delle sue grandi preoccupazioni pastorali fosse quella di una
Chiesa in dialogo con il mondo e di fronte alla scomunica dei comunisti
era convinto della condanna della dottrina marxista, ma non delle persone.
In questo suo stile ho trovato una continuità con il pontificato di Giovanni
XXIII».
Ma un rapporto del tutto particolare, per quasi vent'anni, è stato
soprattutto quello con Giovanni Paolo II?
«I ricordi sono tanti, soprattutto legati ai viaggi ma anche alla loro preparazione. Papa Wojtyla era un uomo
di grande caparbietà, capace di gesti coraggiosi. Come dimenticare la sua
determinazione nel voler pregare a tutti i costi e contro il parere di
alcuni vescovi e soprattutto del governo, sulla tomba di Oscar Arnulfo
Romero a San Salvador, o il suo coraggio di andare in Nicaragua quando
c'era il regime sandinista. Come dimenticare poi il volto del Pontefice
quando si accorse del "tiro" che gli giocò Pinochet durante il viaggio
del 1987? Lo fece affacciare con lui al balcone del palazzo presidenziale,
contro la sua volontà, cambiando, senza averlo concordato, il percorso
del cerimoniale. Giovanni Paolo II soffriva quando non era accettato e
contestato nei suoi viaggi, come nel caso del Nicaragua e dell'Olanda.
Si suggeriva di rimandare certi incontri perché i tempi non erano maturi
e lui replicava sempre con questa frase: "No, io devo andare perché devo
aiutare questa Chiesa, che ha bisogno della mia presenza e che soffre in
questo momento". Un'altra immagine forte di quei viaggi apostolici è stata
sicuramente la sua lunga preghiera al Muro del pianto in Israele nel 2000
e l'incredulità degli uomini della sicurezza che non capivano cosa stesse
facendo. Mi tornano spesso in mente le lacrime della vedova di Rabin, quando
il Papa ricordò il sacrificio di suo marito...».
E del Karol Wojtyla privato, uomo di preghiera cosa rammenta?
«Faceva impressione vederlo pregare, con la sua imperturbabilità nello sgranare la corona del rosario in auto,
in aereo o in elicottero o ammirare la sua lunga sosta di fronte al tabernacolo
nelle varie chiese visitate. Una volta durante un viaggio in elicottero
da Gerusalemme alla Galilea – era un venerdì – notai che il Papa non guardava
dal finestrino ma teneva in mano un libricino un po' logoro, privo della
copertina: stava recitando in silenzio la Via Crucis. Il motivo di questa
scelta? Temeva a causa degli impegni di quella giornata di non riuscire
a compiere questa preghiera come faceva ogni venerdì. Un'altra cosa incredibile
per me era il fatto che durante questi viaggi gli piaceva partecipare alla
mia Messa mattutina. Mi diceva: "Padre Tucci, è così bello ascoltare la
Messa". Devo ammettere che feci all'inizio un po' fatica ad abituarmi ad
avere spesso, come quasi mio unico fedele, nelle mie Messe mattutine il
Papa?».
C'è stato qualche viaggio programmato, ma mai realizzato?
«Più d'uno. Il sogno di Giovanni Paolo II era quello di visitare la Cina, il
Vietnam e la Russia. Ma ciò non fu possibile per grandi resistenze diplomatiche
e di natura ecumenica in entrambi i Paesi. Un altro grande desiderio era
di ripercorrere l'antica Mesopotamia, l'attuale Iraq, lungo il percorso
del patriarca Abramo. Ma ciò non fu possibile per l'opposizione di Saddam
Hussein. E pensare che Giovanni Paolo II fu il leader più fermo nel condannare
l'embargo in Iraq. Ricordo ancora con commozione il sostegno di Arafat
per questo difficile viaggio in Medioriente e le sue belle parole nei confronti
del suo antico amico: "L'unico che si è preoccupato di sapere se sono vivo,
dopo l'attentato, è stato il Papa"».
Che cosa le ha lasciato, in fondo, questa amicizia dai tratti eccezionali?
«Come ho raccontato ai relatori della sua causa di beatificazione, quello di aver incontrato un uomo veramente santo, un mistico che si vedeva che era abituato a pregare, ad avere dei colloqui con Dio anche nei suoi piccoli gesti quotidiani. Sono contento di vedere, a 6 anni dalla sua morte. la sua beatificazione. Forse il suo lascito più grande, per chi come me ha avuto il privilegio di seguirlo
da vicino, è stato soprattutto l'esempio di un uomo che, spinto dalla forza
che dà la fede in Dio, non si è mai fermato davanti a nessun ostacolo,
affrontando con coraggio anche la sofferenza e la morte».