Ricordare la morte di un Papa - a maggior ragione vissuto a lungo, quasi ottantuno anni, e per quindici sulla cattedra petrina come accadde a Giovanni Battista Montini- significa ricordare con il congedo di un uomo, la conclusione, ma pure la sopravvivenza di un pontificato. E allora, trentasette anni dopo la sua morte (avvenuta a Castel Gandolfo la sera del 6 agosto 1978), come rileggere il papato di Paolo VI? Cosa vive della sua eredità? Per Fulvio De Giorgi «resta il dato di un pontificato periodizzante nella storia della Chiesa cattolica degli ultimi secoli, che ha il valore storico di un crinale temporale». «C’è un prima e c’è un dopo Paolo VI», si spinge ad affermare lo storico che ha appena pubblicato con la Morcelliana
Paolo VI. Il Papa del moderno: nella convinzione che il rinnovamento auspicato dal Concilio voluto da Giovanni XXIII «si realizzò compiutamente solo con Montini: con la ricerca di una Chiesa più comunionale, incarnata pluralisticamente nelle diverse realtà e culture, pastoralmente decentrata perché tesa all’uomo concreto, al povero soprattutto, vedendo in esso il volto del Signore … Con Paolo VI cominciò a vedersi una Chiesa che si faceva 'dialogo' verso tutti, imparando il lessico dell’uomo moderno: non per parlargli di sé e dei suoi 'trionfi', ma per annunciargli il Vangelo». Ma c’è altro che De Giorgi sostiene concordando sulla percezione di una riscoperta in corso quanto a Paolo VI (definito sino a poco fa «il Papa dimenticato»). «Poco dopo la sua morte, si sviluppò un neo-liberalismo, nichilisticamente post-moderno e individualista, presto dominante. Sembrò allora che le nuove sfide richiedessero nuovi paradigmi e quelli montiniani, ma anche conciliari, furono un po’ messi da parte. Al totalitarismo nichilista neoliberale non pochi hanno voluto rispondere con una specie di 'totalitarismo' cattolico compatto, per recuperare in termini egemonici...Ma così sono sorte anche nella Chiesa logiche disumanizzanti, spersonalizzanti, antievangeliche. Ecco: oggi, davanti a questi errori si riscoprono la verità e la carità del magistero di Paolo VI , del Vaticano II. Il merito è di papa Francesco, che non ha mai cessato di amare Paolo VI. Ecco ora una ripresa di stile e approccio montiniano che torna a sfidare il neoliberalismo, ma sulla frontiera della giustizia, della pace, dei bisogni degli ultimi, delle attese dei lontani, della salvaguardia del creato». Che si condivida o meno quest’analisi di De Giorgi il recupero di un’ottica montiniana, delle preoccupazioni più profonde nel rapporto di Paolo VI con il mondo, sono evidenti. Inoltre sembrano riprendere consistenza quelle «dimensioni montiniane» sin qui un po’ trascurate negli studi, in particolare la 'cifra' del suo «contributo al rinnovamento, sul terreno metodologico e della dottrina sociale», individuabile per usare la sintesi di Gianni La Bella «nell’espressione di quel nuovo umanesimo integrale, plenario, solidale e aperto al trascendente che è stato la bussola con cui ha cercato nella sua vita di riconciliare la scissione tra fede e cultura». Un contributo - è il giudizio dello storico che ha appena pubblicato con Rubbettino il saggio
L’umanesimo di Paolo VI - ritenuto vincolante da tutti i successori di papa Montini, nonché pietra miliare nel magistero sociale della Chiesa del XX e XXI secolo. Un osservatorio interessante per verificare la «riscoperta di Montini » può essere anche Brescia. E non solo l’Istituto Paolo VI - ora guidato dal teologo don Angelo Maffeis- cioè il Centro di studi e documentazione al quale già nel 1980 Giovanni Paolo II si rivolgeva invitando al rigore scientifico («La verità renderà sempre giustizia a quel grande Papa, che di verità e di sapienza inondò per quindici anni il mondo. Studiatelo con la convinzione che la sua eredità spirituale continua ad arricchire la Chiesa e può alimentare le coscienze degli uomini d’oggi», così esortava papa Wojtyla), ma anche la città, le sue parrocchie… «L’ Anno montiniano sta già portando i suoi frutti», afferma don Antonio Lanzoni vice-postulatore della causa di ca- nonizzazione di Paolo VI. E se il vescovo di Brescia Luciano Monari aprendolo il 19 ottobre scorso auspicava potesse costituire un tempo per «riflettere sulla figura del beato, sul suo insegnamento, sui valori che hanno illuminato la sua esistenza e possono illuminare la nostra», per Lanzoni questo si sta verificando «anche grazie a diverse iniziative che hanno risvegliato l’attenzione oltre la diocesi». Non è tutto. Perché accanto all’approfondimento, si registra un incremento del culto e della devozione. E non solo nel luogo più deputato in città, al Santuario delle Grazie. «Non a caso – continua Lanzoni – si è intensificato il flusso dei pellegrinaggi. Circa diecimila le persone che - dalla beatificazione ad oggi - sono state a Concesio, a visitare la casa natale del Pontefice, ma pure la chiesa che custodisce il suo fonte battesimale e la lapide tombale portata quassù da Roma, l’alfa e l’omega della sua parabola umana e spirituale». E aggiunge: «Parallelamente si riscopre Paolo VI, Papa del Concilio, la sua capacità di alzare ponti, di prendersi cura degli ultimi… Era lui a ricordarci che nella scoperta dei bisogni umani si colloca il nostro nuovo umanesimo che ha il suo fondamento in Cristo…». Eccole le parole-chiave che apriranno il Convegno ecclesiale di Firenze. Si ripete che la missione della Chiesa vive parlando del Dio di Gesù al mondo, nella prospettiva della promozione umana. Era quanto voleva Paolo VI, mancato la sera del 6 agosto 1978. «Quanto voleva e ben esplicitato già nel ’65, nel discorso di conclusione del Concilio, immagine di una Chiesa china sull’uomo. Sì la storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Vaticano II, ma anche di quella di Paolo VI», afferma il teologo don Ettore Malnati, autore di volumi montiniani (ora in libreria con un’edizione commentata della
Mysterium fidei per la Morcelliana). Che aggiunge «Il cristianesimo non si fida dell’umanesimo naturalista, diceva Paolo VI, consapevole che anche il cristianesimo ha bisogno continuo di tagliandi non sempre graditi. L’umanesimo da lui indicato chiedeva lo sviluppo di tutto l’uomo, di tutti gli uomini. Non un umanesimo esclusivo. Nella certezza che non esiste vero umanesimo se non aperto all’Assoluto, che l’uomo si realizza per davvero solo trascendendosi».